Qualche mese fa io e mio marito Vadim eravamo a una cena di gala, quando lui, all’improvviso, cominciò a parlare di istruzione domiciliare per nostra figlia di sei anni, Lilia. Rimasi sorpresa: solo pochi mesi prima avevamo discusso di iscriverla a una scuola privata. Cosa era cambiato? Avrei scoperto la verità sporgendomi ad ascoltare una conversazione fra Vadim e Lilia…
Tutto era cominciato un paio di mesi fa, proprio a quella cena. Eravamo seduti con gli amici quando, senza alcun preavviso, Vadim disse:
«È un sistema, capisci? È troppo rigido, troppo incentrato sui test».
Si chinò in avanti, come se stesse rivelando un segreto dell’universo.
«I bambini devono poter esprimere liberamente la propria creatività. Non voglio che l’immaginazione di Lilia venga ingabbiata. Deve poter percepire il mondo con le dita e scoprirlo da sola», continuò.
Mentre Vadim si protendeva verso la ciotola di purè di patate, tutti intorno al tavolo annuivano mormorando consensi.
«In effetti è proprio così», intervenne la nostra amica Sasha, sorseggiando vino. «Le scuole soffocano la creatività. Peccato che non abbia fatto diversamente per i miei figli. L’anno scorso Jeanne voleva distinguersi con il suo stile a scuola, ma le hanno fatto una ramanzina e rischiava l’espulsione».
Ricordo di aver guardato Vadim, stupefatta dalla passione con cui ne parlava. Finora non aveva mai fatto cenno alla scuola in casa: anzi, si era sempre detto favorevole a mandare Lilia in una privata. E ora ne parlava come se fosse da sempre il suo progetto.
«Potremmo farle noi le lezioni, Maria», disse, guardandomi con un sorriso. «Pensa: niente orari fissi, niente test standard. Potrebbe studiare al suo ritmo».
Annuii, cercando di mettere insieme i pezzi.
«Sembra un’idea interessante», risposi. «Ma prima dobbiamo valutare tutte le opzioni».
Ciò nonostante, un leggero senso di inquietudine mi assalì. Eppure era difficile non farsi coinvolgere da tanto entusiasmo.
Dopo quella sera, Vadim non smise più di tornare sull’argomento, in casa, a cena, in qualche battuta fugace:
«Lilia sarebbe molto più felice se non passasse tutta la giornata in classe».
«Potremmo insegnarle ciò che conta, Maria, non solo ciò che serve per superare un test».
A un certo punto cominciai a crederci anch’io. Prima che me ne rendessi conto, decidemmo di toglierla da scuola e avviare il programma di istruzione domiciliare. Vadim si fece carico di tutto. Aveva sempre partecipato alle riunioni scolastiche, così gli affidai completamente Lilia. E, all’inizio, sembrava andare tutto a meraviglia: mi mostrava con orgoglio i progetti che preparava insieme a lei.
«Sono felice che sia serena», dissi un giorno mentre scaricavo la lavastoviglie.
«Più che felice, Maria», rispose lui sorridendo. «Guarda qua: ha costruito da sola un modello del sistema solare!»
Un pomeriggio tornai a casa prima del solito, desiderosa di sorprenderla con il nuovo set di acquerelli che le avevo comprato. Entrai piano, per non disturbare la “lezione” in corso… e sentii Lilia piangere.
«Papà, mi mancano i miei amici!» singhiozzava. «Staranno pensando che non gli piaccio più. Sono sicura che credono che ci siamo arrabbiati! Si offenderanno perché non vado a scuola…»
Mi avvicinai silenziosa alla sala da pranzo, trasformata in aula, e udii la voce di Vadim, bassa e pacata:
«Liliečka,» le disse, «te l’avevo detto: possiamo mandar loro dei piccoli regali, va bene? Non si arrabbieranno».
Lilia piagnucolò, ma con un tono un po’ più sereno:
«Quei regali di cui parlavi… me li porterai tu, vero?»
«Sì, tesoro», rispose lui.
«Proprio come quando mi hai portata con te mentre mamma lavorava? Me li consegnerai ai miei amici come le altre buste che consegni alla gente?»
Rimasi di stucco. Cercai di mettere insieme le informazioni prima di fare irruzione e pretendere spiegazioni.
Vadim non si era occupato di istruzione domiciliare per motivi filosofici, bensì… di consegne di pacchi. Tutti quei giorni in cui credevo che studiasse con Lilia… cosa stava davvero accadendo sotto il mio tetto?
«Ora capirai, Maria», mormorai, entrando nella stanza.
Il volto di Vadim imbiancò al vedermi.
«Non vuoi spiegarmi cosa diamine intende Lilia?» chiesi.
Il mio petto mi si strinse, come se trattenessi il fiato in attesa di una terribile notizia. Vadim sospirò, passando le mani tra i capelli.
«Cara, perché non vai a giocare sull’altalena o guardi un po’ di televisione?» disse a Lilia.
Aspitammo che la bambina corresse, felice, fuori verso il giardino e le altalene, prima che lui aggiungesse una parola.
«Ho… ho perso il lavoro, va bene? Qualche mese fa. Non sapevo come dirtelo, Maria».
Rimasi con gli occhi sbarrati.
«Hai perso il lavoro? Allora cosa diavolo facevi in tutti questi mesi?»
«Conducevo consegne. Non è un impiego stabile, ma alcune ore al giorno le ricavo. Portavo con me Lilia tra una lezione e l’altra. Pensavi che lavorassi in ufficio e poi studiassi con lei…»
«Consegne? Davvero? Per tutto questo tempo?» chiesi, incredula. «Perché non me l’hai detto subito?»
«Non volevo che pensassi fossi un fallito», ammise lui con voce fioca. «Non sapevo come rimediare. Ma sai quanto mi stava stressando il lavoro all’ultimo: quelle ore mi torturavano. Credevo che, resistendo ancora un po’…»
Scossi la testa, cercando di rimettere ordine nei pensieri. Volevo arrabbiarmi, non tanto perché aveva perso il lavoro, ma perché me lo aveva nascosto. Sapevo cosa significa perdere il lavoro e poi dover rialzarsi. Anche io, quando ero incinta di Lilia, rimasi senza impiego perché non potevano mantenermi in maternità. Lui aveva tirato avanti fino al terzo anno di Lilia.
Mi sentivo triste: triste perché Vadim aveva affrontato tutto da solo.
«Non avresti dovuto passare tutto questo senza di me», gli dissi, tendendogli la mano.
Lui mi sorrise, malinconico.
La settimana successiva abbiamo rimesso Lilia a scuola, usando i nostri risparmi. Quando l’ha rivista, è esplosa di gioia correndo dai suoi compagni. E la colpa che opprimeva Vadim ha cominciato ad andare via, mentre lo vedevo sorridere guardandola ai cancelli.
Per quanto riguarda lui, ha trovato un altro lavoro come responsabile in un supermercato. Non era il lavoro dei suoi sogni, ma era onesto e con benefit sanitari. E, onestamente, credo che il fatto di guadagnare di nuovo regolarmente sia stato per lui la vera liberazione.
In casa è tornata la leggerezza che mancava da tempo. La sensazione di andare avanti, insieme.
E voi, cosa fareste al mio posto?