Ho installato una telecamera per beccare mia nuora ladra, ma quando ho visto la registrazione mi è mancato il terreno sotto i piedi.

«Le cose spariscono? Controlla i tuoi.» Questa frase l’avevo imparata da mia madre. Perciò, quando dalla mia scatolina dei gioielli scomparvero gli orecchini di famiglia e dalla busta sparì una grossa somma, sapevo esattamente su chi puntare il dito. Sulla nuora. La silenziosa, modesta Katja, che viveva con mio figlio in un appartamento in affitto, guardava i miei beni con un’invidia troppo evidente. Per coglierla sul fatto, installai una telecamera nascosta in salotto. Mi aspettavo di vedere il suo furto nella registrazione, ma quando guardai il filmato capii che il vero ladro era molto più spaventoso. E per tutto quel tempo mi aveva fissata dallo specchio.

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Anna Petrovna era sempre stata orgogliosa dell’ordine del suo bilocale. Ogni centrino sul comò lucido, ogni libro sullo scaffale, ogni statuina di porcellana: tutto aveva il suo posto. Quell’isola di stabilità e prevedibilità era la sua fortezza, il suo mondo, dove lei era padrona assoluta. Ma ultimamente, in quella fortezza si era aperta una crepa. L’ansia, appiccicosa e sgradevole, le si era insinuata nell’anima già da qualche settimana, e oggi aveva assunto una forma chiara, terribile. Gli orecchini erano spariti. Non orecchini qualunque, ma quelli di sua madre: un valore di famiglia, con minuscoli diamanti come gocce di rugiada.

Frugò nella scatolina per la terza volta. Il velluto era vuoto, proprio nel nido dove gli orecchini erano sempre stati. Il cuore le martellò così forte che le orecchie iniziarono a ronzare. Controllò tutti i cassetti del comò, rovesciò la biancheria dal cesto, guardò sotto il letto. Niente. Gli orecchini sembravano evaporati. E nella sua testa, contro la sua volontà, affiorò un’unica immagine: Katja. Sua nuora.

Katja era passata ieri. Aveva portato la spesa e la solita torta di ricotta, che Anna Petrovna trovava insipida ma lodava sempre per educazione. Katja era stata seduta lì, in salotto, a bere tè e a cinguettare di qualcosa: del nuovo lavoro di suo figlio Igor, dei piani per le vacanze. Anna Petrovna aveva persino pensato, in quel momento, a quanta invidia Katja provasse guardando l’arredamento. Loro, Katja e Igor, vivevano in un “monolocale” in affitto in periferia; e Katja, cresciuta in una famiglia modesta, sembrava sempre—almeno così pareva ad Anna Petrovna—osservare con ammirazione malcelata il cristallo e i mobili antichi.

“Dopotutto, la settimana scorsa mi aveva chiesto di provarli…”, le tornò in mente. Diceva: “Che meraviglia, Anna Petrovna, le stanno così bene.” E intanto li divorava con gli occhi. Avida.

Anna Petrovna si sedette sul divano. No, era impossibile. Katja, certo, non era un dono del cielo: troppo semplice, troppo rumorosa, troppo… non quella che lei aveva sognato per il suo Igor. Ma rubare? Quello superava ogni limite. Eppure… chi lo sa, cosa hanno in testa queste provincialotte silenziose? Forse hanno debiti? Igor, di sicuro, non lo ammetterebbe mai.

La sera chiamò suo figlio.

— Mamma, ciao! Come stai? Katjuša dice che eri un po’ taciturna quando è passata. Tutto bene?

La voce di Anna Petrovna tremò. Avrebbe voluto sputare fuori tutto subito, ma qualcosa la fermò. Accusare senza prove significava mettere il figlio contro di lei.

— Tutto bene, Igorček, — disse secca. — Mi fa solo male la testa. Sono un po’ stanca.

— Riposati, mamma. Magari vieni da noi nel weekend?

— No, — tagliò corto. — Ho… cose da fare. Igor, dimmi: con i soldi va tutto bene? Nessun problema?

Dall’altra parte calò una pausa.

— Mamma, ma di cosa parli? Tutto come sempre. Lavoriamo. Che succede?

— Niente, — la voce le diventò capricciosa, isterica. — Ho solo chiesto! Ormai non si può nemmeno interessarsi! Sempre tutto segreto con voi!

— Ma quali segreti, mamma? Calmati. È tutto a posto. Se ti serve qualcosa, dimmelo.

“Dirtelo?”, pensò velenosa mentre riattaccava. “Dirti che la tua Katja fruga nelle mie scatole? E tu che faresti? La difenderesti, diresti che mi faccio film…”.

Tornò al comò e passò il dito sulla superficie impolverata. Polvere. Katja ieri aveva spolverato. Era stata lì. Da sola, quando Anna Petrovna era andata in cucina a mettere su il bollitore. Due minuti. Abbastanza per aprire la scatolina e infilare gli orecchini in tasca. L’idea era così limpida che ormai i dubbi erano quasi spariti. Una rabbia fredda si mescolava all’offesa: offesa verso il figlio, cieco davanti all’evidenza, e verso la nuora, che le aveva piantato un coltello nella schiena con tanta bassezza.

— Non importa, — sussurrò nel silenzio dell’appartamento vuoto. — Ti smaschererò. Te lo giuro.

Passò una settimana. Gli orecchini non saltarono fuori. Anna Petrovna rivoltò casa più volte, guardando nei posti più impensabili, ma invano. Dormiva male, si svegliava di notte al minimo fruscio. Le sembrava che qualcuno camminasse per l’appartamento, aprisse cassetti, frugasse nelle sue cose. Ogni volta, con paura, accendeva la luce: ma nella stanza c’era solo un silenzio denso, vischioso. Di giorno divenne sospettosa, nervosa. Le pareva che i vicini la guardassero con biasimo, come se sapessero del suo “disonore di famiglia”.

Giovedì era il momento di pagare le utenze. Anna Petrovna teneva sempre la somma necessaria in contanti, in una busta, nel cassetto della scrivania sotto una pila di vecchie cartoline. Prese la busta, la aprì e rimase immobile. Invece di dodicimila rubli, ce n’erano settemila. Cinquemila erano spariti.

Il panico le strinse la gola. Non poteva essere. Si ricordava benissimo di aver contato i soldi dopo la pensione. Katja! Katja era passata martedì. “A fare un salto”. Aveva portato di nuovo quella torta stupida. Seduta lì, a raccontare di un’amica che aveva comprato un’auto a rate. Un’allusione, probabilmente! Come a dire: “anche a noi servono soldi, e tu hai il gruzzolo lì fermo”.

Le mani le tremavano. Afferrò il telefono e chiamò suo figlio.

— Igor! — quasi urlò senza lasciargli tempo di parlare. — Mi sono spariti dei soldi! Cinquemila! Dal cassetto!

— Mamma, calma, — rispose Igor con voce stanca. — Sei sicura? Forse li hai spesi e te ne sei dimenticata. O li hai spostati da un’altra parte?

— Non sono pazza! — strillò lei, sentendo lacrime di offesa e impotenza scendere sulle guance. — Non ho speso niente e non ho spostato nulla! Prima gli orecchini, adesso i soldi! Non capisci cosa succede?! È tua moglie! Era qui martedì!

— Mamma, basta! — la voce di Igor si fece dura. — Non voglio sentirlo. Katja non lo farebbe mai nella vita. Ti stai suggestionando. Lo sai che ultimamente con la memoria non va benissimo… ora cerchi le chiavi, ora gli occhiali.

— La memoria?! — soffocò lei, furibonda. — Vuoi dire che sono rincoglionita?! Io ricordo tutto benissimo! Sei tu che sei accecato dall’amore per la tua ladra! La difendi e tua madre la manderesti in manicomio!

— Mamma, non ho detto questo. Controlla ancora bene, per favore. Salteranno fuori.

— Non salterà fuori niente! — gridò, e buttò giù.

Pianse seduta sul pavimento del corridoio. Suo figlio non le credeva. La considerava una vecchia malata piena di stranezze. Tutta colpa di Katja. Era lei che gli aveva messo la madre contro, sussurrandogli che la suocera era diventata insopportabile, che dimenticava tutto, confondeva tutto. Così, quando lei avesse ripulito l’appartamento, Igor avrebbe detto: “Eh, mamma avrà messo via da qualche parte e se n’è scordata”.

Sabato arrivarono insieme. Katja, come nulla fosse, le porse un sacchetto con delle arance, sorridendo.

— Anna Petrovna, buongiorno! Le abbiamo portato delle vitamine.

Anna Petrovna si ritrasse come se Katja fosse appestata.

— Non mi serve niente, — sibilò fissandola con odio scoperto. — Avreste fatto meglio a lasciare ciò che avete preso.

Katja rimase pietrificata. Il sorriso le scivolò dal viso.

— Di cosa parla?

— Di cosa parlo io?! — le note isteriche le esplosero di nuovo nella voce. — Del fatto che in questa casa le cose hanno cominciato a sparire! Cose di valore! Soldi! Appena certe persone hanno preso l’abitudine di venire qui!

Igor fece un passo avanti, mettendosi davanti alla moglie.

— Mamma, avevamo già parlato. Finiscila.

— Ah, ne avete parlato?! — rise Anna Petrovna con una risata nervosa, spezzata. — Parlate alle mie spalle di come spogliarmi, eh?! Pensate che io sia una vecchia stupida, che non capisca niente?!

— Anna Petrovna, glielo giuro, non ho preso nulla, — disse Katja piano, con le lacrime agli occhi. — Perché mi fa questo?

— Perché! — tagliò corto Anna Petrovna. — Perché la verità non si nasconde! Andatevene. Non voglio vedervi. Tutti e due!

Sbatté la porta in faccia a entrambi e vi si appoggiò, ansimando. Il cuore martellava. Li aveva cacciati. Ma era necessario. Ora era sola. Sola contro di loro. E sola avrebbe dovuto dimostrare di avere ragione. Un pensiero che prima le era parso folle e alieno, ora prese la forma di un piano preciso. Se le parole non bastavano, doveva mostrare. Mostrare una prova inconfutabile.

La decisione arrivò improvvisa, chiara e fredda come un mattino d’inverno. Una telecamera. Serviva una telecamera nascosta. Quell’idea, che fino a poco prima sembrava roba da detective scadenti, ora era l’unica via. Anna Petrovna non era mai stata amica della tecnologia, ma internet faceva miracoli. Con dita tremanti digitò nel motore di ricerca: “comprare mini-telecamera per casa invisibile”.

Il sito le offrì decine di opzioni: telecamere mascherate da caricabatterie, orologi, penne, perfino bottoni. Scelse la più discreta: un piccolo cubo nero grande come un dado, da nascondere ovunque. Nella descrizione c’era scritto: “Alta risoluzione, sensore di movimento, registrazione su scheda di memoria.” Perfetto. Fece l’ordine con consegna a un locker, così Igor e Katja non avrebbero scoperto nulla.

Due giorni d’attesa sembrarono un’eternità. Quasi non uscì di casa, sobbalzando a ogni squillo del citofono. Quando arrivò l’SMS, si mise il cappotto e corse quasi di corsa al locker. Ritirando la scatolina, si sentì una spia in missione. Il cuore batteva per la miscela di paura e eccitazione.

A casa, dopo aver chiuso a doppia mandata, aprì l’acquisto. Una telecamerina e un libretto d’istruzioni in più lingue. Con fatica, dopo quasi due ore e vari riavvii del vecchio portatile, riuscì a configurarla. La qualità dell’immagine era sorprendentemente nitida: vedeva sullo schermo il suo salotto, il suo divano, il comò lucido. Il luogo dell’“imboscata” fu scelto subito: sullo scaffale dei libri, tra elefantini di porcellana e souvenir delle terme, la telecamera sarebbe stata invisibile. La infilò con cura tra uno gnomo paffuto e una matrioska dipinta, puntando l’obiettivo proprio sul comò con la scatolina e sulla scrivania dove stava la busta.

Ora serviva un’esca. Dal credenzone prese un vecchio cucchiaino d’argento, regalo della nonna. Non valeva quanto gli orecchini, ma era comunque un ricordo prezioso. Lo mise ben in vista, vicino alla scatolina. E nella busta sulla scrivania infilò apposta un paio di banconote grosse, in modo che si vedessero se qualcuno la socchiudeva. La trappola era pronta.

Fu lei stessa a chiamare suo figlio. La voce era volutamente calma, persino un po’ colpevole.

— Igorček, perdonami. L’altra volta mi sono scaldata. Sono diventata vecchia, nervosa. Venite, per favore. Mi mancate. Ho fatto anche una torta, la vostra preferita, con le mele.

Igor, contento della pace, accettò subito.

— Certo, mamma! Passiamo domani dopo il lavoro. Katja era anche molto in pensiero.

“Ci credo”, pensò Anna Petrovna con acidità. “Le si rovina il piano.”

Il giorno dopo lo passò sulle spine. Controllò decine di volte se la telecamera funzionava, se l’angolo era buono. Si sentiva la regista di uno spettacolo sinistro, dove il ruolo della cattiva era riservato a sua nuora. Verso sera la colpì una sensazione strana: un lieve senso di vergogna. Stava spiando persone di famiglia. Ma poi ricordava il vuoto nella scatolina, i soldi mancanti, il tono condiscendente del figlio, e ogni pietà evaporava. No, faceva bene. Difendeva se stessa e la sua casa. Voleva solo sapere la verità. E per la verità bisogna combattere.

Quando suonarono alla porta, si sistemò i capelli, mise la maschera della padrona di casa cordiale e andò ad aprire. La trappola si chiuse. Restava solo da aspettare.

La serata divenne un teatro dell’assurdo. Anna Petrovna si agitava in cucina: tirava fuori la torta dal forno, versava il tè, e intanto con la coda dell’occhio non staccava lo sguardo dal salotto. Ogni passo di Katja, ogni gesto, rimbombava nella sua testa. Katja sistemò un cuscino del divano. Poi prese un libro dallo scaffale, lo sfogliò, lo rimise a posto.

— Mamma, la torta è fantastica! — disse Igor, mangiando con gusto il secondo pezzo.

— Mi impegno per voi, — rispose secca Anna Petrovna, fissando Katja.

Katja sedeva tesa, sentiva il gelo della suocera. Provò a fare conversazione, raccontò una storia buffa del lavoro, ma le parole affondavano in quel silenzio pesante e viscoso.

— Anna Petrovna, non le fa male la testa? Oggi è così silenziosa… — chiese Katja con sincera premura.

— Sto benissimo, — tagliò Anna Petrovna. — Pensa piuttosto a te.

Igor lanciò alla madre uno sguardo di rimprovero.

— Mamma!

— E “mamma” cosa? Sto solo dando un consiglio utile. Nella vita bisogna essere molto attenti. Soprattutto con le cose degli altri.

Katja impallidì e abbassò gli occhi nella tazza. Non disse più una parola fino alla fine della sera. L’atmosfera a tavola si fece oppressiva. Si sentivano solo i cucchiaini contro le tazze e il ticchettio del vecchio orologio. Anna Petrovna provò una soddisfazione cattiva. Che si innervosisse. Che sentisse la terra bruciare sotto i piedi.

Alla fine Igor si alzò.

— Va bene, mamma, dobbiamo andare. Domani ci alziamo presto. Grazie per la cena.

In corridoio iniziarono a vestirsi. Anna Petrovna li seguì per accompagnarli.

— Katja, potresti aiutarmi un attimo? — chiese all’improvviso. — Devo prendere un barattolo di cetrioli dalla dispensa: è pesante, e la schiena mi fa male.

Igor fece per andare lui, ma Anna Petrovna lo fermò.

— Vestiti, figliolo, che poi ti raffreddi. Io e Katjuša facciamo in un attimo.

Era il suo piano: lasciare Katja da sola in salotto almeno per un minuto. La dispensa era in fondo al corridoio, vicino alla cucina.

— Certo, Anna Petrovna, — accettò Katja sottovoce.

Andarono in corridoio. Anna Petrovna si mise apposta a trafficare nella dispensa, spostando barattoli, fingendo di non trovare quello giusto. Il cuore le batteva in gola. “Dai”, la spingeva mentalmente. “Hai un minuto. Basta per afferrare il cucchiaino.”

Quando tornarono, Igor stava già allacciandosi le scarpe. Katja infilò gli stivali in silenzio e uscirono. Dopo aver chiuso la porta, Anna Petrovna non corse subito a controllare la “scena del crimine”. No: fece una pausa, come una cacciatrice esperta. Sistemò con calma la tavola, lavò i piatti. E solo quando in casa tornò il silenzio perfetto, trattenendo il respiro, si avvicinò al comò.

Il cucchiaino d’argento era al suo posto.

Anna Petrovna si immobilizzò. La delusione fu così forte che le gambe le cedettero. Non l’aveva preso. Paura? O forse lei si sbagliava e Katja non c’entrava davvero? No, impossibile. “Le ho dato troppo poco tempo”, decise. “Oppure ha notato qualcosa di sospetto.”

Quella notte quasi non dormì. Il piano era fallito. Si sentiva stupida e, al tempo stesso, ancora più arrabbiata. Quindi doveva aspettare. Aspettare la prossima visita. Prima o poi la natura ladra di Katja si sarebbe mostrata. La telecamera era al suo posto. L’orologio continuava a ticchettare. E le corde tese di quella sera da incubo continuavano a vibrare nelle sue orecchie, senza lasciarla dormire. Aspettava la svolta, senza immaginare quanto sarebbe stata terribile.

La settimana successiva alla visita si trascinò lenta e dolorosa. Anna Petrovna si sentiva come un cacciatore che ha messo i lacci e ora aspetta in agguato. Quasi non usciva, temendo di perdere il “momento della verità”. La scheda di memoria poteva contenere registrazioni per alcuni giorni, e lei decise di guardare tutto quello che si era accumulato dal momento dell’installazione, per farsi un quadro completo.

Una sera, quando l’ansia divenne insopportabile, si decise finalmente. Tirò le tende, chiuse a chiave, si sedette al tavolo con il portatile. Le mani erano fredde e umide. Inserì la scheda di memoria e aprì la cartella dei video. Decine di clip brevi, create automaticamente al rilevamento del movimento. Iniziò dall’inizio: dal giorno in cui aveva installato la telecamera.

I primi file erano noiosi: lei che passa per la stanza, lei che spolvera. Poi comparve il file del sabato: il giorno della loro visita. Lo guardò: la cena tesa, le sue battute taglienti, il volto spaventato di Katja. Nulla di nuovo. Nessun gesto sospetto da parte della nuora, né durante la cena né in quel minuto in cui era rimasta sola. La delusione si mescolava alla rabbia.

Passò alle registrazioni del giorno dopo. Domenica, ore diurne. Sullo schermo comparve lei stessa. Anna Petrovna entrò in salotto, si guardò intorno. I movimenti erano strani: agitati, a scatti. Si avvicinò al comò, prese la scatolina, rovesciò sul palmo alcuni anelli e spille. Li rigirò tra le dita e poi, con orrore, Anna Petrovna vide un pezzo cadere a terra e rotolare sotto il comò. La “lei” sullo schermo non se ne accorse nemmeno: rimise tutto nella scatolina e uscì. Anna Petrovna, davanti al portatile, si coprì la bocca con la mano. Aveva cercato quell’anello per due giorni. Era convinta che lo avesse rubato Katja!

Con dita tremanti aprì il file successivo. Lunedì, verso mezzogiorno. Di nuovo lei. Questa volta la sua copia sullo schermo si avvicinò alla scrivania. Tirò fuori la busta con i soldi per le bollette. Anna Petrovna si tese, fissando lo schermo.

Nella registrazione, il suo “doppio” contò le banconote, poi ne prese una—la più grossa—e andò in cucina. La telecamera non vedeva cosa succedeva lì, ma dopo un minuto lei tornò a mani vuote. Il cuore di Anna Petrovna saltò un colpo. Non ricordava quel gesto. Per niente. Non aveva preso soldi dalla busta.

Respirando a fatica, mise in pausa e, come in trance, si alzò e andò alla scrivania. Le mani non le obbedivano mentre prendeva la busta. Contò. Le si oscurò la vista. Quindi non era un frutto della fantasia, non era paranoia. I soldi mancavano davvero. E lei aveva appena visto chi li aveva presi. Lei stessa.

Dove li aveva messi? Nessun ricordo. Solo un vuoto che fischiava. Andò in cucina, aprendo meccanicamente vasi e barattoli. Niente. Disperata, si sedette sulla sedia accanto al tavolo della cucina coperto da una vecchia cerata. Passò la mano sulla superficie e le dita urtarono un piccolo rigonfiamento che prima non c’era. Alzò il bordo della cerata.

E rimase senza fiato. Lì sotto, premuta con cura contro il tavolo, c’era una banconota familiare ripiegata in due.

Ora la verità era molto più spaventosa dei sospetti. Un conto è trovare il proprio “nascondiglio” e ridere della propria sbadataggine. Un altro è vedere una prova inconfutabile che compi azioni senza senso, illogiche, e che il tuo cervello le cancella subito dalla memoria. Lei non aveva “dimenticato” e basta. Aveva perso il controllo.

Arrivò al file registrato quella stessa mattina. Erano circa le dieci. La porta si aprì piano. Entrò Katja. Aveva le chiavi: a volte passava a lasciare la spesa se sapeva che la suocera era in policlinico o al negozio. Katja appoggiò la borsa a terra e in quel momento il suo sguardo cadde su qualcosa che luccicava sotto il comò. Si chinò e raccolse… l’anello. Non lo infilò in tasca. Lo guardò, poi guardò la scatolina, e sul suo volto comparve una stanchezza infinita. Si avvicinò e posò l’anello con cura nella scatolina.

Poi passò in salotto. Non si mise a guardarsi intorno: andò dritta al credenzone, dove erano allineati i vasetti di porcellana—la vecchia collezione di Anna Petrovna. Katja iniziò, metodicamente, uno dopo l’altro, a prenderli in mano e guardare dentro. Anna Petrovna davanti allo schermo si gelò. Cosa stava facendo?

Nel terzo vasetto qualcosa brillò. Katja rovesciò delicatamente il contenuto sul palmo. Erano loro. Gli orecchini di sua madre con i minuscoli diamanti come gocce di rugiada. Gli orecchini da cui era iniziato quell’incubo. Katja li fissò a lungo: sul suo volto non c’era gioia, ma un dolore profondo, senza fondo. Senza dire una parola, andò al comò, aprì la scatolina e depose gli orecchini sul loro letto di velluto. Anna Petrovna premette “pausa”: l’immagine si fermò sul volto di Katja. Barcollando si alzò, andò al comò. Le mani tremavano così tanto che non riuscì ad aprire subito. Aprì. Gli orecchini erano lì. Erano tornati.

Tornò al portatile e fece ripartire. Katja sullo schermo agiva calma, quotidiana, come se fosse un compito di routine: rimettere a posto i danni degli strani gesti della suocera. Lei sapeva tutto. E da tempo.

Anna Petrovna rimase seduta, fissando l’immagine di Katja in pausa. Il mondo non era solo crollato: si era capovolto. Non c’era nessuna ladra. Nessun complotto. C’era solo una malattia terribile e progressiva che, giorno dopo giorno, le divorava la mente. E c’era la persona che lei aveva odiato e sospettato… e che per tutto quel tempo era stata il suo angelo custode silenzioso, proteggendola con discrezione da se stessa e dalla vergogna. Le lacrime le bruciavano gli occhi, ma non piangeva. Restava lì, schiacciata dal peso della vergogna e da un terrore gelido per il futuro.

Nei due giorni successivi Anna Petrovna visse come nella nebbia. Non uscì, non rispose alle chiamate. Non riusciva a mangiare, non riusciva a dormire. Se ne stava in poltrona, fissando un punto, e ripeteva nella mente quel video.

Ogni parola dura contro Katja, ogni sguardo accusatore, ogni ingiustizia ora la bruciava dentro come ferro rovente. Aveva accusato di furto qualcuno che, invece, aveva già capito da tempo che stava accadendo qualcosa di grave e, in silenzio, con delicatezza, cercava di riparare alle sue amnesie. Era insopportabile. La vergogna era così totale che avrebbe voluto sprofondare, sparire, pur di non incrociare gli occhi della nuora.

La paura la investiva a ondate di ghiaccio. Cosa sarebbe successo dopo? Oggi nasconde gli orecchini; domani dimenticherà il gas acceso. E dopodomani? Dimenticherà il suo nome? Si perderà per strada? Era sempre stata una donna forte, indipendente, abituata a controllare tutto. Ora la sua mente la tradiva, trasformandola in una creatura impotente. E la cosa più terribile era che lei stessa, con le proprie mani, aveva allontanato le uniche persone che avrebbero potuto aiutarla: il figlio, che provava a suggerire il problema, e la nuora, che vedeva tutto e le proteggeva la quiete.

Come guardarle in faccia? Come chiedere perdono? Le parole le si bloccavano in gola. “Scusa, Katja, ti credevo una ladra, e invece sto perdendo la testa.” Sembrava un delirio. Immaginò quella conversazione e le salì la febbre. Vide nei loro occhi la pietà. La pietà era ciò che temeva più di tutto: più dell’odio, più dei rimproveri.

Il telefono squillava insistente. Sullo schermo: “Igorček”. Lo guardò finché smise. Poi arrivò un messaggio: “Mamma, tutto bene? Siamo preoccupati. Katja non riesce a contattarti. Veniamo stasera.”

Stasera. Sarebbero arrivati stasera. Il panico le schiacciò di nuovo il petto. Non era pronta. Non poteva. Corse alla porta e la chiuse con il chiavistello. Si sarebbe nascosta. Avrebbe fatto finta di non essere in casa. Ma quella era codardia. Era fuga.

Si sedette sul divano. Il video. La telecamera era ancora sullo scaffale: il suo piccolo occhio nero la fissava in silenzio. Era la sua maledizione e la sua unica salvezza. Non avrebbe saputo spiegare con le parole; non aveva forze. Ma poteva mostrare. Mostrare quella verità terribile che aveva scoperto su se stessa. Sarebbe stata la sua confessione. La sua supplica di perdono e aiuto. Radunando gli ultimi brandelli di volontà, prese la scheda di memoria e la inserì di nuovo nel portatile. Li avrebbe aspettati. Con quella prova della sua colpa e della sua malattia.

Alle sette in punto suonarono. Insistenti, allarmati. Anna Petrovna sedeva in poltrona di fronte al portatile, con il video già aperto nei punti giusti. Il cuore le martellava. Fece un respiro profondo e andò ad aprire.

Sulla soglia c’erano Igor e Katja. Entrambi agitati.

— Mamma, che succede? Perché non rispondevi? Ci hai fatto impazzire! — sbottò Igor.

Katja la guardava in silenzio. Nei suoi occhi non c’era offesa: c’era una paura profonda.

Anna Petrovna non riuscì a dire nulla. Si fece da parte, li fece entrare e indicò il salotto. Loro entrarono, scambiandosi uno sguardo confuso.

— Sedetevi, per favore, — sussurrò lei con le labbra secche.

Si sedettero sul divano. Anna Petrovna restò in piedi, appoggiata allo schienale della poltrona per non cadere.

— Io… devo farvi vedere una cosa, — disse con fatica. — Non riesco a spiegarlo. Guardate e basta.

Premette “play”.

Per i primi minuti guardarono in silenzio: la cena tesa, le sue frecciate, il volto spaventato di Katja. Igor aggrottò la fronte, Katja abbassò la testa.

Quando sullo schermo apparve Anna Petrovna stessa, che camminava per la stanza come un fantasma, Igor si sporse.

— Mamma? Cos’è questo?

Lei non rispose, stringendo lo schienale con le dita.

Videro come lei nascondeva i soldi, come nascondeva gli orecchini. Sul volto di Igor comparvero shock e incomprensione. Si voltò verso la madre, ma vide solo il suo profilo pietrificato.

Poi nella registrazione apparve Katja. Videro come trovava i soldi e li rimetteva nella busta. Come recuperava gli orecchini, e una lacrima le scivolava sulla guancia. Come li posava nella scatolina.

Nella stanza calò un silenzio morto. Si sentiva solo il ronzio sommesso del portatile.

Igor si voltò lentamente verso la moglie. Katja sedeva con la testa china; le spalle tremavano. Igor guardò lei, poi lo schermo, poi sua madre. Nei suoi occhi si fece strada una comprensione lenta. Terribile. Distruttiva.

Anna Petrovna non resse più. Le gambe le cedettero e cadde in ginocchio sul pavimento.

— Perdono… — le uscì tra i singhiozzi. — Katjen’ka, perdonami… Io… io non lo sapevo…

Pianse come una bambina, scuotendo tutto il corpo: un pianto di vergogna, paura e disperazione.

— Pensavo fossi tu… Sono stata così crudele… E io… io sono malata… Sto impazzendo…

Katja alzò la testa. Il volto era bagnato di lacrime. Si alzò, si avvicinò alla suocera e si inginocchiò accanto a lei. Non disse “te l’avevo detto” né “come hai potuto”. La abbracciò soltanto. Forte, come si abbraccia un bambino spaventato.

— Mamma… — disse piano, e in quella parola non c’era un’ombra di falsità. — Piano, mamma. Va tutto bene. Siamo qui.

Igor si avvicinò e si accovacciò accanto a loro, appoggiando le mani sulle spalle di entrambe le sue donne. Guardava sua madre non con pietà, ma con un dolore immenso e con amore.

— Ce la faremo, mamma, — disse con fermezza. — Mi senti? Ce la faremo. Tutti insieme.

Anna Petrovna singhiozzava nell’abbraccio della nuora, sentendo il guscio gelido di paura e solitudine—che per settimane le aveva stretto il petto—iniziare a sciogliersi sotto il calore delle sue mani. Non sapeva cosa l’aspettasse: la lotta con la malattia, i medici, il lento spegnersi della mente. Quel futuro la spaventava a morte. Ma in quel momento sapeva una cosa soltanto: non era sola. La trappola che aveva preparato per un’altra persona aveva preso lei stessa. E proprio quella trappola l’aveva portata alla salvezza: amara, spaventosa, ma comunque salvezza—tra le braccia di una famiglia che lei aveva rischiato di distruggere.

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