La sposa incinta ha consegnato tutti i suoi risparmi al fidanzato per un matrimonio da favola. Tornata dal sanatorio, è rimasta senza parole di fronte alla verità.

Alina si fece strada a fatica sull’autobus stracolmo. Non era più tornata da quelle parti da quando era venuta a mancare la nonna, e in tutto quel tempo aveva fatto solo quell’unica visita al villaggio.

Poi nulla era più andato per il verso giusto: lo studio, il divertimento, la vita. A dirla tutta, avrebbe voluto cancellare persino quell’unica volta dalla memoria. Proprio allora era comparso Maxim. E Maxim era il nipote di suo nonno… o meglio, del nonno–marito di sua nonna.

La nonna era sempre stata famosa per la sua bellezza. Lo diceva sua madre, prima di partire all’estero con un nuovo corteggiatore e lasciare la diciassettenne Alina alle cure della nonna. Lo ripetevano tutti i paesani. Insomma, quando la nonna aveva superato i cinquant’anni, si era risposata.

Lei stessa ammetteva di averlo fatto per ritornare alla sua prima grande storia d’amore, quella che in gioventù aveva spezzato per un capriccio. Alina aveva sempre provato simpatia per il nonno Grigorij: tranquillo, generoso, e aveva amato sua nonna fino all’ultimo giorno. L’unico suo difetto — a detta di Alina — era quel nipote, Maxim.

All’inizio, tuttavia, Alina non nutriva alcun pregiudizio verso Maxim. Anzi, aspettava con impazienza l’incontro. Da bambina le pareva che tutte le persone fossero amici, e, in più, Maxim aveva tre anni più di lei: con lui doveva essere divertente.

Ma quando Maxim finalmente arrivò, Alina capì subito che con un tipo così altezzoso non c’era spazio per l’amicizia. Lui la trattava con sufficienza, la chiamava «piccolina» in continuazione, e questo la irritava oltre misura. Litigavano ogni volta che si incontravano a casa dei nonni.

E ogni volta Alina finiva per aggredirlo, cercando di dargli una lezione. Maxim, naturalmente, non si difendeva davvero: la prendeva in braccio, la portava dentro casa e commentava: «Alina ricomincia a fare la prepotente, ma non posso certo lasciarla vincere». E indovinate un po’? Tutti lodavano Maxim e rimproveravano lei. Quanto lo odiava!

Poi non si videro per anni, forse più di tre. Si rincontrarono al funerale del nonno e, qualche mese dopo, a quello della nonna. Dopo il rito funebre rimasero da soli nella casa vuota, e Alina lo guardò stupefatta. Quel ragazzo era cresciuto, aveva superato quell’impaccio adolescenziale: davanti a lei sedeva un giovane attraente, spalle larghe, alto — insomma, il sogno di qualsiasi ragazza.

«– Che cosa fissi con quegli occhi spalancati? Ti prepari per un’altra scazzottata?» le chiese lui.
Alina sospirò.
«– Quale scazzottata?»
«– Ma come, non ti ricordi?»
Alina sbuffò:
«– Santo cielo, ricordati almeno qualcosa di avvenuto prima della nostra nascita!»
«– E la casa, che ne facciamo?» passò al dunque.
«– Boh. Credo che la lasceremo lì — tanto venderla non ha senso, ti darebbero quattro spiccioli. Nessuno vuole viverci. Ci verremo solo per riposarci, chissà.»

Alina sospirò e, per la prima volta, diede ragione a Maxim:
«– Forse hai ragione.»
Lui alzò un sopracciglio:
«– Cosa ho appena sentito? Mi stai dando ragione?»
Alina si surriscaldò:
«– Basta! E poi, se ti va, abitaci pure. Non mi interessa, tanto mi sposo presto.»
«– Non ci posso credere! E chi mai si innamorerebbe di una testarda come te?»

Le parole le bruciarono il cuore. Alina si trattenne a stento dall’assalirlo nuovamente, ma Maxim, a giudicare dal ghigno sul volto, aveva già capito tutto. Così, senza decidere nulla di concreto e dichiarando che nessuno dei due sarebbe rimasto, si salutarono e non si rinviarono più incontro.

Passarono appena due anni. Ora Alina stava tornando al villaggio perché non aveva più un posto dove andare. Avrebbe potuto fermarsi da un’amica o cercare un appartamento in affitto, ma i soldi non le avanzavano più; anzi, non ne aveva affatto. Tutti i risparmi, destinati all’acquisto di un piccolo bilocale, li aveva consegnati al fidanzato per il matrimonio.

Decisero insieme di organizzare una cerimonia sontuosa, dal momento che il suo futuro marito possedeva già un meraviglioso appartamento di due stanze in centro città. Avevano pianificato tutto, quando venne fuori che Alina era incinta.

Anton — questo era il nome del fidanzato — ne fu felice come se avesse ricevuto il dono più grande della vita. Prese immediatamente in mano l’organizzazione:
«– Allora, tu vai in sanatorio. Conosco uno che può procurarti il posto — ora ne hai proprio bisogno.»
«– Ma, Anton, il nostro matrimonio…»
«– Pensaci io a tutto. A te spetterà solo scegliere l’abito. Devi restare forte e in salute; farò preparare tutti i trattamenti necessari.»
Anton fece un gesto teatrale e Alina rise.
«– D’accordo, hai vinto. Sei il migliore.»

Anton la guardò serio:
«– Non immagini quanto tu significhi per me.»

Ogni sera parlavano al telefono. Anton raccontava i dettagli dei preparativi, Alina condivideva le sue impressioni sul soggiorno.
«– Mi manchi tanto, Anton. Non vedo l’ora di tornare.»
«– Oh, stai come una bambina. Pensa al benessere del nostro piccolino. A proposito, domani non potremo sentirci: andremo a vedere la sala e ci fermeremo tardi. Devo valutare le decorazioni.»
Alina sospirò, sapendo quanto Anton fosse meticoloso:
«– E dopodomani torno io.»
«– Benissimo. Ti verrò a prendere.»
«– Anton, dalla stazione arrivo da te in cinque minuti a piedi. Non sono malata, sono incinta. Preoccupati di preparare una cena romantica: mi manchi troppo.»

Alina volava verso la stazione come su ali, immaginando l’abbraccio di Anton, i suoi baci teneri… Ma la porta le aprì una donna sconosciuta.
«– Chi cercate?»
«– Come chi? Anton è qui?»
La donna sorrise con disprezzo:
«– Io sono la proprietaria. Il tuo Anton affittava da me. Se n’è andato senza pagare l’ultimo mese. Pagherai tu?»
Alina balbettò:

«– Deve esserci un errore! Sono stata al sanatorio. Anton è qui per il matrimonio. Ho tutte le mie cose!»
Resasi conto di non avere prove, la ragazza entrò in casa: non c’era nulla di Anton, e le sue cose erano sparse a terra in disordine. Raccolse una maglietta, poi un’altra… Poi si voltò verso la donna:
«– Chiamo la polizia! Gli sarà successo qualcosa?»
La proprietaria scosse la testa:
«– Non gli è successo niente. Ha passato due settimane a fare il gallo con le ragazze. Quando ho minacciato di venire, è scappato lasciando tutto indietro.»
«– Ma ci sposiamo! Aspettavamo un bambino!»
Alla fine la donna si intenerì:
«– Allora vai al ristorante dove avete fissato il matrimonio. Ma prima prova a chiamarlo.»
Alina annuì: il telefono era spento — Anton dimenticava sempre di caricarlo.
«– Hai ragione. Vado subito.»
«– Ricordati di recuperare le tue cose, altrimenti le butto.»
Alina raccolse in fretta i pochi oggetti rimasti, senza trovare un soldo. Sul pianerottolo la proprietaria la fermò:
«– Hai vissuto qui, perciò paga almeno un mese.»
La ragazza consegnò tutto quel che aveva, pur restando a mani vuote. Al ristorante nessuno aveva notizia di Anton o del matrimonio. Alina compres​se la verità: Anton l’aveva abbandonata, intascando i suoi soldi. Sembrava impossibile, ma ogni indizio lo confermava.

Uscì in strada, si sedette su una panchina isolata nel parco e pianse a lungo. Poi decise di tornare al villaggio: non voleva vedersi compatita da nessuno. I soldi bastavano appena per il biglietto e un paio di fagottini.

Si rimproverò per aver seguito il consiglio di Anton e aver lasciato il lavoro prima del sanatorio, e per avergli pure dato il suo ultimo risparmio. L’autobus sbuffò nero e scomparve dietro la curva.

Alina, con la borsa di miseri averi in spalla, si diresse verso la casa della nonna. L’umore cominciò a migliorare: le piaceva sempre quell’aria, la bellezza incontaminata.

Quando arrivò, rimase pietrificata. Tutto intorno era curato, pulito, accogliente. Spinse il cancello… E si trovò davanti Maxim.

«– Che sorpresa! Chi viene a farci visita?» le disse lui, in bermuda e canottiera, già sistemato lì.

«– Tu? Quando sei arrivato? Cosa ci fai qui?» chiese lei, confusa.

Maxim sorrise:
«– Sono venuto a rilassarmi, un po’ di riposo. E tu, vedo che non sei di passaggio.»

All’improvviso Alina sentì il petto stringersi: le lacrime le pungevano gli occhi. Perché proprio lui, adesso? Aveva già sofferto abbastanza. Meno che mai voleva rivederlo. Né Maxim, né tantomeno Anton.

«– Hey, che hai?» disse lui accarezzandole la guancia, asciugandole le lacrime. Poi le prese la borsa e ordinò:
«– Vieni in casa. Non vorrei che qualcuno vedesse la tiranna del villaggio piangere.»

Alina sorrise involontariamente: un tempo era davvero la pestifera di turno.

Maxim la fece sedere sul divano, corse a prendere dell’acqua e gliela porse.
«– Adesso mi racconti tutto. Ricorda: non esistono problemi insormontabili.»

Alina restituì il bicchiere:
«– Posso restare qui per un po’? Non ti darò fastidio.»
«– Ma che dici? Questa è casa tua tanto quanto la mia. Stai finché vuoi.»

La mattina dopo Maxim sbirciò nella stanza:
«– Presto, colazione!»
Alina sorrise, ma poi ricordò di non avere soldi neppure per comprare del cibo:
«– Non voglio. Non mangio la mattina.»
A pranzo disse di essere a dieta, e la sera Maxim la bloccò davanti al muro:
«– E allora, Alina. Anche se da bambini litigavamo più di quanto stessimo insieme, mi sento comunque responsabile di te. Siedi e dimmi cosa ti è successo. E soprattutto: perché non mangi? Hai paura che ti avveleni io?»

Lei resse fin dove poté, ma tra lo sguardo intenso di lui e la fame che iniziava a farsi sentire, cedette. Raccontò singhiozzando. Maxim la ascoltò in silenzio, poi si alzò.
«– Allora, procediamo con ordine. Non sei cambiata di una virgola: sempre la stessa ragazzina irresponsabile. Perché pensi solo a te? E al bambino ci hai pensato? Cosa mangerà?»

Alina lo guardò smarrita.

Maxim le prese la mano, la condusse al tavolo e le mise nel piatto macaroni alla marinara con un contorno di insalata.
«– Mangia e ascoltami. Andrò a cercare il tuo Anton. Forse lo troviamo, ma non prometto che tornerà da te. Ti restituirà i soldi, però.»
«– Non voglio che torni, e nemmeno tu…»
«– Già, questo fa bene. Dimostra che stai diventando saggia. Sai, dagli errori non ci si salva, ma nascondersi non serve.»

Passò un mese. Alina aveva ripreso colore: sulle guance spuntava un bel rossore e la pancia cominciava a mostrarsi. Maxim tornava dal lavoro in città ogni sera e le preparava da mangiare; insieme rendevano la casa e il giardino splendidi.

Un giorno lui arrivò e posò sul tavolo una mazzetta di banconote.
«– Immagino non sia tutto, ma è quello che resta. Possiamo dargli un ultimatum e lasciarlo cercare.»
Alina lo guardò sorpresa:
«– Dimmi una cosa: abbiamo sempre litigato, e tu fai tanto per me. Perché?»

Maxim la fissò, incerto, quasi impaurito:
«– Mah… non lo so davvero.»
«– Maxim, non prendermi in giro. Tu non sai mentire.»

Lui sorrise e si sedette:
«– Sai quante volte in questi anni ho sognato di vivere qui con te, sotto questo tetto? Ho persino chiesto alla vicina di avvisarmi se fossi tornata. E ora che ci siamo, sono sicuro che non te ne andrai per orgoglio. E io avrò finalmente modo di dimostrarti di essere proprio io la persona giusta. Ecco, è quasi come l’avevo immaginato. Già…»
«– Solo che sono incinta di un altro uomo,» sospirò Alina.
«– Non capisco il senso di queste parole. E che importa? Il bambino, il nostro bambino, potrà mai essere estraneo?»

Lei rimase senza parole. Lui aggiunse:
«– Basta parole vuote. Quando torni in città?»
Alina non rispose, ma il suo volto si illuminò di un sorriso.

«– Alina, che succede?»
«– Sai, Maxim, niente è cambiato: mi viene ancora voglia di darti un cazzotto per farti rinsavire. Ma se non mi baci subito, lancerò qualcosa contro di te.»

Maxim fece un passo avanti, pensando a quel bacio dei “Ragazzi del cinema” in cui il protagonista si copriva le labbra per paura del contraccolpo. In quell’istante si sentì allo stesso modo, ma il colpo non arrivò. Alina gli saltò al collo e disse con decisione:
«– Non lasciarmi più, ti prego. Senza di te non sono capace di stare.»

E lui finalmente la baciò, con il cuore colmo di speranza.