Viktor entrò nell’appartamento, gettò la valigia da viaggio a terra e si strofinò il volto stanco. Era passato mezzo anno da quando era partito per la turnazione. Mezzo anno non ci eravamo visti.
Da lui si sentiva l’odore di profumi costosi, di polvere e di una città straniera. Volevo fiondarmi su di lui e abbracciarlo, ma in braccio avevo addormentato uno dei piccoli, mentre l’altro già piangeva nella culla.
— Che cos’è… — Viktor si fermò sulla soglia. Il suo sguardo scorse le due culle una dopo l’altra. — Anja, che succede?
Sorrisi nervosamente, cullando con delicatezza mio figlio. Il cuore mi batteva forte: avevo preparato quel momento a lungo, avevo sperato che si sarebbe rallegrato.
— Sorpresa. Abbiamo dei gemellini. Dei maschietti.
Lui restò in silenzio. Non si avvicinò, non guardò i bambini in volto. La sua espressione, spenta dal lungo viaggio, si fece di pietra. Fissava le due culle, come se fossero rovine che avevano frantumato i suoi piani.
— Sorpresa? — ripeté con voce sommessa. — Lo chiami “sorpresa”? Avevamo concordato di prenderne uno solo. Io contavo su un solo bambino.
— Vitya, è successo così. È davvero tanto male? Sono nostri figli. È una doppia felicità.
— Felicità? — rise amaramente, e quel suono mi percoté come un brivido lungo la schiena. — Ho passato sei mesi a lavorare in un clima duro non per una “felicità duplicata”.
Io mi ero data da fare per pagare il mutuo, prendere un’auto. Non certo per infliggermi un peso di vent’anni subito.
La sua voce si fece sempre più dura.
— Hai mai pensato a me? Chi ha mai pensato a me? Avevo i miei progetti! Volevo vivere per me stesso!
Le lacrime mi annegarono gli occhi, ma le trattenni.
— Ora i nostri progetti sono loro, — indicai i bambini.
Viktor si voltò verso la finestra. Vidi le sue spalle irrigidirsi, il collo contraersi. Non guardava né loro né me. Fissava il sogno che gli era crollato addosso.
— No, — disse con voce ferma, voltandosi di scatto. — Sono i tuoi progetti. Hai fatto nascere due figli? Tu li cresci. Io me ne vado. Voglio vivere la mia vita.
Parlava calmo, come se esprimesse un desiderio qualunque: ed era proprio per questo che le sue parole ferivano di più.
Aprì l’armadio, spalancò la porta e iniziò a gettarvi dentro i suoi vestiti: magliette, maglioni, jeans — tutto in un caos di tessuti.
— Viktor, fermati! Cosa stai facendo? Ragiona! — feci un passo verso di lui, poi mi fermai per non svegliare il bambino che tenevo in braccio.
— Ragiona tu, — rispose scagliandosi alle spalle. — Non avevamo questo accordo.
Richiuse la valigia, la sollevò senza guardarmi e si diresse verso l’uscita. Io restai immobile al centro della stanza, incredula, stringendo al petto il corpo caldo di mio figlio, mentre l’altro già singhiozzava nella culla.
La porta sbatté.
Mi sedetti lentamente sul bordo del letto, come se non sentissi più le gambe. Per dieci minuti rimasi lì, ad ascoltare il pianto. Poi chiamai mia madre.
— Mamma… possiamo venire da voi? A vivere, per sempre?
Arrivammo al villaggio accolti dall’odore di fumo, di terra arata e di vecchie travi di legno. La casa dei miei genitori, con le porte basse e la recinzione inclinata, divenne la nostra nuova dimora.
L’appartamento in città, dove ci sentivamo soffocare fra debiti e speranze, rimase alle spalle. Qui il tempo scorreva diversamente: non lo misuravano gli orologi elettronici, ma i tramonti, i primi ghiacci sul fiume, la melma primaverile.
Kirill e Denis crebbero come due querce giovani — forti, un po’ goffi, indistinguibili agli occhi degli estranei, ma completamente diversi per me.
Kirill era serio, preciso, tutto lo faceva con cura da adulto. Con passione aiutava il nonno, imparava il mestiere, amava l’ordine e la precisione.
Denis era l’opposto: vivace, audace, sempre in movimento. Era lui il primo a arrampicarsi sugli alberi, a inventare giochi e straordinarie trovate.
— Mamma, guarda! — gridava mentre sfrecciava in cortile sul suo marchingegno artigianale, e Kirill lo seguiva, pronto con gli attrezzi.
Insegnavo nella scuola locale, facevo più materie e correggevo quaderni a casa. Vivevamo con modestia, ma dignitosi.
Talvolta, la sera, sotto una luce fioca, mentre stavo china sui quaderni, mi chiedevo: e se Viktor fosse rimasto? Forse ora vivremmo in città, porteremmo i bambini alle attività, ci rilasseremmo al mare? Scacciavo subito questi pensieri — erano come ombre che mi trattenessero indietro.
Il mio presente era qui — nel cigolio del pavimento, nell’odore del legno nell’officina del nonno, nei due paia di valenki identiche all’ingresso.
Un giorno d’inverno, in una bufera, l’infisso della cameretta cedette. Si udì un schianto, e il vento gelido piombò nella stanza, sollevando la tenda e portando un nugolo di neve. I ragazzi fuggirono spaventati dietro la porta.
— Non è un problema, — disse il nonno con la lanterna in mano. — Fisseremo tutto prima di sera. Domani rifiniremo.
La mattina portò via la vecchia cornice.
— Ragazzi, — sorriso complice del nonno, posandola sul banco da lavoro, — impariamo insieme. La finestra è l’occhio di casa: dev’essere chiara e robusta.
Trascorsero l’intera giornata in officina. Il nonno mostrava come rimuovere le vecchie guarnizioni, pulire gli angoli, adattare perfettamente il vetro. Kirill replicava ogni gesto con cura sorprendente.
Denis gironzolava, passava gli attrezzi, parlava senza fermarsi; negli occhi però gli brillava la curiosità vivace.
La sera, la finestra era montata. Non perfetta, ma solida.
— È venuta bene, — esclamò Denis, guardando il giardino attraverso il vetro nuovo. — È anche meglio di prima!
— È vero, — concordò Kirill, accarezzando la giuntura liscia. — Quando saremo grandi, apriremo la nostra impresa e faremo finestre che resisteranno a qualsiasi vento. Le migliori in tutta la regione.
Stetti sulla soglia a guardarli e per la prima volta in anni provai non rassegnazione, ma una calda fierezza. Ce l’avrebbero fatta. Senza di lui. Ci erano riusciti da soli.
Passarono quasi trent’anni. Il tempo addolcì il dolore, ma non cancellò i ricordi.
Da quel primo, goffo lavoro era nata «OknaStroyGarant». Ora era nota in tutta la provincia. Kirill ne era il principale stratega: calmo, riflessivo, conduceva trattative, disegnava progetti, introduceva tecnologie.
Il suo ufficio era un esempio di ordine. Denis, invece, era l’anima e la forza motrice: sovrintendeva produzione e montaggi, correva cantieri, sollevava da solo pesanti vetri isolanti ed era maestro nel gestire il personale.
Erano rimasti uniti come le due facce di una medaglia.
Io da tempo avevo lasciato la casa dei genitori per una villetta che i miei figli stessi avevano costruito accanto al loro ampio chalet bifamiliare. Non insegnavo più: aiutavo Kirill con la contabilità e le nuore con i nipotini.
Ogni giorno osservavo i miei figli, le loro solide famiglie, l’impresa che avevano fondato dal nulla e sentivo dentro una calda certezza e orgoglio. La storia con il loro padre era ormai lontana, quasi fiabesca, come parte di un passato altrui.
Un pomeriggio, come al solito, portai in ufficio il pranzo — pollo arrosto e insalata fresca. Denis mi accolse subito e prese i contenitori.
— Mamma, sei una salvezza! — esclamò. — Oggi è un delirio e non abbiamo nemmeno fatto pausa. Stiamo assumendo nuovo personale, e Kirill è al terzo colloquio.
Sbirciai nella stanza di Kirill e vidi un uomo anziano con giacca consumata. Non riuscii a intravederne il volto, solo la nuca e le mani nervose. Ma nel portamento c’era qualcosa di dolorosamente familiare.
— Ha esperienza, — diceva la sua voce roca — ho lavorato dovunque, persino nel nord quando ero giovane… La vita mi ha sfinito, e io non ho guadagnato nulla. Volevo vivere per me stesso… e invece non ho vissuto affatto.
Kirill rispose: l’uomo si alzò e si voltò verso di me. In quell’istante i nostri sguardi si incrociarono. Rimasi di stucco. Era lui. Viktor.
Il suo volto scavato dal tempo, rughe profonde, occhi spenti — ma era proprio lui. L’uomo che trent’anni prima mi aveva lasciata per «vivere per sé» stava ora chiedendo di lavorare con i figli che aveva abbandonato.
Indietreggiai di colpo nel corridoio, portandomi una mano alla bocca per non gridare. Denis, accortosi del mio stato, corse da me.
— Mamma, cos’hai? Stai tremando!
Non riuscii a parlare. Indicai con mano tremante l’uscita dove Viktor stava già andandosene, senza riconoscermi.
Quella sera ci sedemmo in tre a casa mia. Fu la conversazione più difficile della mia vita.
I ragazzi ascoltarono in silenzio, seri. Raccontai tutto: della sua partenza, di quelle terribili parole, dell’incontro odierno.
— L’abbiamo assunto, — disse Kirill dopo una pausa. — Come montatore. Il suo cognome è lo stesso, ma può essere un caso.
— E ora? — domandò Denis, senza guardarmi.
— Niente, — rispose il fratello maggiore. — Lo convochiamo domani. Volevo vederlo dal vivo.
Il giorno dopo Viktor fu invitato nella sala riunioni. Insistetti per esserci anch’io: volevo guardare tutto con i miei occhi.
Al lungo tavolo eravamo noi tre — io e i miei due figli, padrone dell’azienda prospera. Dopo un istante entrò Viktor, con la divisa dell’azienda e il logo cucito sul petto.
Alla vista della mia presenza trasalì, come se cercasse di riconoscermi senza riuscirci.
— Prego, prenda posto, Viktor, — disse Kirill indicando la sedia libera.
L’uomo si sedette, con curiosità e un filo di speranza. «Ha figli?» chiese Denis dopo un attimo, fissandolo.
Viktor strinse le labbra e abbassò lo sguardo.
— No. Non ne ho. Non è riuscito. Ho vissuto da solo, tra viaggi e lavoro. Ho perso la salute e non ho avuto nulla in cambio. Volevo vivere per me… e in realtà non ho vissuto.
— Capisco, — fece Denis annuendo — immagino avessi dei piani? Comprare un’auto, andare in vacanza?
E poi hai pensato: no, non voglio legami. Figurati un figlio. O due. Sarebbe stato un supplizio, giusto?
Viktor trasalì. Per la prima volta guardò Denis, poi Kirill, infine me. I suoi occhi si spalancarono, il volto impallidì. Mi riconobbe.
— Tu… Anja? Sei tu?!
— Siamo i tuoi figli, — disse Kirill con voce calma, ma dietro quell’equilibrio si celava un dolore di decenni. — Proprio quelli che hai abbandonato per “vivere per te”. Allora, hai vissuto?
Viktor si coprì il volto con le mani, oscillando sulla sedia.
— Figli… ragazzi… non lo sapevo… credevo…
— Basta, — lo interruppe Denis. Si alzò e si avvicinò alla finestra, oltre la quale si scorgeva il capannone. — Guardaci. Abbiamo fatto tutto noi. Senza di te. Abbiamo studiato, lavorato, caduto e rialzato. Costruito la fabbrica, le case, le famiglie. Questi sono i nostri progetti. Tu li chiamavi un peso.
Kirill si alzò anche lui.
— Non ti licenzieremo. E non ci vendicheremo. Volevamo solo che vedessi con i tuoi occhi. Una volta. Ora puoi andar via. Prendi il salario di un giorno e non farti più vedere. Non ci servi più. Sei superfluo nelle nostre vite.
Viktor alzò lo sguardo, pieno di lacrime e pentimento tardivo. Volle parlare, ma non proferì parola. Si alzò in silenzio e uscì dalla stanza barcollando.
Restammo in tre davanti alla finestra. Denis mi abbracciò, Kirill rimase accanto a me. Oltre il vetro la vita aziendale continuava: i macchinari ronzavano, i carrelli elevatori sfrecciavano.
Lì nasceva un futuro nuovo, solido e luminoso. Il vecchio fantasma era stato per sempre scacciato. Non cercavamo né perdono né vendetta: la nostra vittoria era un’altra. Era dentro di noi.