«Che cos’è?» sussurrò Maria, rimanendo immobile sulla soglia di casa sua.
Il fagotto giaceva ai suoi piedi. Una tuta blu, guanciotte rosa e uno sguardo impaurito. Una bimba, piccola, avvolta in un vecchio fazzoletto dal disegno sbiadito. Zitta, soltanto guardava con occhi lacrimanti.
Maria si guardò intorno. Un’alba umida d’ottobre. Il villaggio di Verkhniye Klyuchi ancora dormiva, solo il fumo di qualche comignolo si alzava nel cielo grigio. Nessuno sulla strada, nessun rumore di passi, nessuna traccia di chi avesse lasciato quel dono misterioso.
«Ma chi…?» si interruppe, accucciandosi lentamente.
La bambina le allungò le manine paffute. Un anno, forse poco più. Pulita, nutrita, ma in lacrime. E nessun biglietto, nessun documento.
«Papà!» chiamò Maria, raccogliendo il fagotto. «Papà, svegliati!»
Ivan uscì dalla stanza, strofinandosi gli occhi. Il volto segnato, la canottiera consumata, le spalle incurvate dal duro lavoro. Rimase fermo nell’architrave della porta, gli occhi si spalancarono alla vista della piccola.
«L’hanno lasciata qui,» esalò Maria, la voce involontariamente più bassa. «Ho aperto e… eccola. Non c’è anima viva.»
Ivan si avvicinò con lentezza, sfiorò delicatamente la guancia della bambina con un dito ruvido.
«Hai qualche idea?»
«Che idee?» dentro Maria montava un’ondata di smarrimento. «Dobbiamo andare al commissariato. È affare loro, non nostro.»
«E se non trovano i parenti?» il padre guardava la bimba con un’ombra di speranza. «Ospedale, orfanotrofio… già lo vedi?»
La bambina afferrò il dito di Maria con forza, come temesse di essere lasciata andare. Qualcosa tremò nel cuore della donna. Non tenerezza, piuttosto paura della responsabilità.
«Non ce la faccio, papà. Ho la fattoria, il lavoro,» scosse la testa Maria. «Solo ora mi sono ripresa dopo Kostik.»
Il divorzio era avvenuto tre mesi prima. Il marito se n’era andato, confessando con freddezza che la campagna gli era diventata insopportabile. Maria era tornata a casa del padre con una valigia e lo sguardo vuoto.
«La bimba non c’entra,» disse Ivan, sfiorando il fazzoletto. «Forse il cielo ti ha mandato una risposta.»
«Quale risposta?» sbuffò Maria. «Non dire sciocchezze.»
Eppure non mollava la mano della piccola. Lei si era quietata, come avvertisse che si stava decidendo il suo destino.
In cucina si sentiva l’odore del latte. Ivan scaldava un barattolo sulla stufa, mentre Maria guardava smarrita la creatura sul tavolo. La volta annerita, il legno che scricchiolava, fuori le foglie marcivano. Il mondo sembrava lo stesso, eppure qualcosa era cambiato per sempre.
«La porterò alla soviet del villaggio,» disse risoluta Maria. «Dopo colazione.»
Ma dopo colazione toccò lavare le fasce, poi dar da mangiare un’altra volta, quindi Ivan recuperò una vecchia culla dalla soffitta e il giorno arrivò a metà pomeriggio.
Al soviet non seppero che fare. Nessun bambino disperso, nessuna madre giovane nei dintorni. Il poliziotto di zona annotò qualcosa sul taccuino, promise di «prendere provvedimenti» e, chiaramente, si disinteressò.
«Per stanotte resti da voi,» sbadigliò. «Domani la portiamo al centro distrettuale.»
La sera le vicine affluirono in casa. La voce si sparse in fretta.
«Oh, hai preso l’abbandonata!» esclamò Stepanovna, gettando uno sguardo nella culla. «Chissà di chi è il sangue.»
«E la tua ancora non l’hai fatta,» intervenne un’altra, guardando Maria con aria equivoca. «Prendere quella degli altri è sempre più facile.»
Maria taceva, tagliando cipolla con nervosismo. Il coltello batteva sul tagliere più forte del solito.
«Andatevene,» sbottò all’improvviso Ivan, alzandosi. «Tutte. Fuori.»
Quando la casa si svuotò, Maria scoppiò a piangere. Silenziosamente, con rabbia, asciugandosi le lacrime con le mani.
«Hanno deciso tutto senza di me, vero? Tu e l’intero villaggio?»
«Non ho deciso nulla,» tirò fuori Ivan una sagoma di cavallino di legno. «Ho solo intagliato e pensato: magari un giorno sarà felice.»
La bimba dormiva nella culla, russando piano. Da sola al mondo, inutile a chiunque. La mattina il poliziotto non si fece vivo. Né di giorno, né di sera. Il terzo giorno Maria smise di aspettare.
Comprò in negozio uno shampoo per bambini, qualche camicino e un ciuccio. Le vicine bisbigliavano al pozzo, ma lei non badava più a niente.
Un giorno, mentre faceva il bagnetto alla piccola, Maria disse di colpo:
«Ti chiamerai Masha, come me… D’altronde il destino ha deciso così.»
Il nome cadde leggero, come fosse sempre appartenuto a quegli occhi neri. Ivan annuì, come se avesse atteso quel momento. Passarono due anni. La primavera succedette all’inverno, il giardino si coprì di verde. Masha correva in cortile, rideva, inseguiva la gatta rossa. Camminava tenendosi alla gonna di Maria, ripeteva le sue parole, metteva i blocchi con ostinazione.
Maria stava sulla soglia col fazzoletto tra le mani, quello in cui aveva trovato la figlia. Lavato, stirato, ormai non era altro che stoffa, non più simbolo di una vita rovesciata.
Lo ripiegò con cura e lo ripose nel comò. Non serviva più. La figlia aveva un nome, una casa e un futuro legato a lei più di ogni vincolo di sangue. Avevano sistemato i documenti, tutto era in regola.
«Mamma, è vero che non sono tua?» Masha stava sulla soglia in divisa scolastica, lo zaino stretto al petto come uno scudo.
Maria si fermò col mestolo in mano. Il minestrone bollì, traboccando. Nove anni erano passati, eppure la domanda la colse di sorpresa.
«Chi te l’ha detto?» la voce di Maria si fece dura.
«Sashka Vetkin. Dice che sono un’abbandonata, che la vera mamma mi ha lasciata perché sono cattiva.»
Maria poggiò il mestolo. Un’ondata di rabbia le oscurò gli occhi. Trattenne il fiato per non dire parole di cui poi si sarebbe pentita.
Nel villaggio tutti conoscevano la storia, ma finora nessuno aveva mai osato dirlo a Masha.
«Non sei cattiva,» sussurrò. «E io sono la tua vera mamma. Solo…»
«…Niente foto,» concluse lei. «Tutti hanno foto da piccoli. Io non ne ho.»
Ivan tossì da dove si trovava. Negli ultimi tempi era spesso malato, ma si manteneva forte. Riparava il tetto, aiutava in casa. Ora era febbraio, il gelo, le bufere, le giornate brevi.
«La macchina non ce l’avevamo,» spiegò rialzandosi. «I soldi servivano per le medicine.»
Masha guardò prima il nonno, poi la madre. Un lampo di consapevolezza negli occhi da bambina: non rabbia, ma comprensione.
«Non ho fatto il compito,» disse piano. «Dovrei parlare della mia famiglia, con le foto.»
«Ti aiuto io,» asciugò le mani Maria sul grembiule. «Racconteremo tutto com’è. Senza foto, ma onestamente.»
La sera Masha era al tavolo, illuminata dalla lampada a cherosene — avevano staccato di nuovo la luce. Sul quaderno spuntò un disegno: una donna e una bambina, mano nella mano. Sopra, il sole. Semplice, infantile, ma conteneva tutto ciò che non avresti potuto spiegare alla maestra.
Maria cuciva in un angolo. Un vecchio vestito diventava uno nuovo per Masha. Le mani sottili, forti, maneggiavano l’ago con destrezza. Ivan tossiva dietro il separé. La settimana successiva arrivarono nuovi bambini a scuola: agricoltori che avevano comprato i campi vicini, famiglie di città. Bambini con giacche costose, telefoni e storie di centri commerciali e computer.
«Abbandonata, abbandonata!» si prese gioco Sashka Vetkin nel cortile, indicando Masha. «Ti hanno trovata nel bidone dell’immondizia!»
I bambini di città risero. Masha rimase immobile, poi si voltò e corse a casa. Maria la trovò nelle verande, tra vecchi secchi. Un fagottino singhiozzante in uniforme scolastica.
«Tesoro,» si inginocchiò accanto a lei. «Non dar retta a loro. Sono stupidi.»
«Allora è vero?» Masha alzò il viso in lacrime. «Sono un’abbandonata?»
Maria tacque. Un nodo le si strinse lo stomaco. Mentire ancora? Aspettare che la verità venisse da altri?
«La gente parla per parlare!» scoppiò infine. «Ma tu sei mia, hai capito? Mia!»
Masha si ritrasse, impaurita dall’improvviso scoppio. Maria si pentì subito, ma le parole non tornarono indietro.
La settimana seguente fu tesa. Masha andava a scuola a fatica. Maria lavorava fino allo sfinimento in fattoria, rientrava tardi. I discorsi non filavano. Poi accadde qualcosa di inaspettato: Ivan, sempre riservato, chiamò Masha accanto a sé. Lei entrò cauta, si sedette sul bordo del letto.
«Ti dico una cosa,» disse lui, guardando fuori dalla finestra i campi innevati. «Se c’è un filo che vi lega, nessuna parola potrà spezzarlo.»
Masha lo fissava in silenzio, le mani rugose ma gentili. Quelle mani che le avevano intagliato cavallini di legno e riparato il tetto.
«Anche se non sono tua di sangue?» sussurrò.
«Proprio allora,» annuì Ivan. «Perché quel filo lo scegli tu. Ed è più forte.»
Masha rifletté, poi si alzò e andò in cucina. Maria stava lavando i piatti, raschiando le pentole con veemenza. Due braccia circondarono la sua vita. Masha si strinse al grembiule.
«Cosa succede?» si stupì Maria.
«Niente,» mormorò Masha contro il grembiule. «Solo così.»
La sera, dopo aver messo a letto la figlia, Maria prese il vecchio fazzoletto dal cassetto. Quello stesso. Si sedette sul bordo del letto, accarezzando il tessuto usurato.
«Masha,» chiamò. «Non dormi?»
«No,» venne da sotto le coperte.
«Vieni qui.»
La bambina si avvicinò, avvolta nella camicia da notte. Il fuoco nella stufa rischiarava il volto segnato di questi giorni.
«Sei arrivata proprio da lì,» porse il fazzoletto. «Sulla soglia. Senza nessun biglietto. All’inizio avevo paura… poi non ho più potuto restituirti.»
Masha sfiorò la stoffa con delicatezza.
«Non conta chi ha dato la vita, conta chi non ti ha abbandonata,» continuò Maria, guardando verso un angolo della stanza.
Il mercoledì successivo arrivò una lettera. Busta sigillata del collegio medico. Masha la roteava tra le mani, esitante ad aprirla.
«Dai, leggila,» incitò Maria, asciugandosi le mani. «Non ti mangerà.»
Sedicenne, seria, con gli occhiali e una lunga treccia, Masha stava alla finestra. Fuori il lillà fioriva, il sole di maggio riscaldava la terra dopo l’inverno.
«Sono stata presa!» mormorò, gli occhi che scorrevano le righe. «Mamma, mi hanno accettata!»
Maria sorrise. Il cuore le si strinse di orgoglio e paura insieme. La figlia stava per lasciare quel luogo sperduto per diventare infermiera. E lei restava sola.
«Lo sapevo,» disse, mentre abbracciava la ragazza. «Sei una furba.»
Quella sera venne a trovarle la vicina Petrovna, magra e sempre preoccupata. Portò un barattolo di marmellata, fece gli auguri per l’ammissione e poi, sorseggiando il tè, disse:
«Non siete mica davvero madre e figlia, vero? Siete troppo diverse.»
Masha si bloccò col cucchiaio a mezz’aria. Maria si drizzò, pronta a cacciare via l’ospite.
«È vero,» rispose calma Masha. «Sono adottata.»
«Oh, scusa, non volevo,» si scusò Petrovna. «Ho solo pensato…»
«Va bene,» la interruppe Masha. «Non è un segreto.»
Quando la vicina se ne andò, Maria guardò la figlia stupita.
«Quando sei diventata così grande?»
Masha sorrise sistemando le tazze.
«Tu mi hai fatta crescere.»
La mattina prima del diciottesimo compleanno di Masha, Maria si svegliò con decisione. Era ora. Meglio che la verità venisse da lei anziché sentirla dai passanti. Tirò fuori dal guardaroba il fazzoletto, lo lavò e lo stese al sole. Preparò la torta preferita di ribes. Sistemò la casa come per un ospite importante.
La sera sedevano sulla soglia. Il tramonto tingeva di rosa le nuvole. Odore di erba e di terra bagnata. Tra gli uccelli in lontananza un canto si spezzava.
«Domani compi diciotto anni,» disse Maria stringendo la tazza. «Sei grande ormai.»
Masha annuì. Aveva il fazzoletto sulle ginocchia. Lo toccava come fosse un tesoro.
«Puoi arrabbiarti. Non sono la tua madre di sangue, lo sai. Ma tu sei il mio senso, la mia vita.»
Masha tacque. Maria vide le labbra tremare, le spalle irrigidirsi. Lei prese il fazzoletto, lo passò tra le dita sfilacciate, come leggendo una storia.
«Dentro di me sapevo sempre, anche da piccola,» mormorò la ragazza. «Non riuscivo a mettere insieme il puzzle.»
«Perché non parlavi prima?»
«La paura,» confessò Masha, abbracciandosi le spalle. «Pensavo che un giorno avresti detto: “È stato un errore, sei un peso.”»
Maria sospirò rumorosamente.
«Mai. Nemmeno per un attimo.»
Masha scoppiò in un pianto silenzioso, come fanno gli adulti che non vogliono farsi sentire. Poi si alzò, si avvicinò a Maria e la strinse in un abbraccio, la guancia contro i capelli argentei.
«Non sono arrabbiata,» sussurrò. «Sono solo… grata. Per avermi scelta. E io scelgo te.»
Maria scoppiò in singhiozzi gioiosi. Era come se un peso che portava da anni finalmente si sciogliesse.
La mattina dopo Masha preparava le valigie. Tra una settimana sarebbe partita per la città, il convitto, la nuova vita. Maria la osservava mentre riponeva libri, quaderni e il primo stetoscopio, regalo di compleanno.
«Ho trovato una busta nell’armadio, è per te?» chiese Masha, porgendo una lettera ingiallita.
Maria annuì. Ivan, prima di andarsene per sempre, le aveva chiesto di consegnarla al momento giusto. L’aveva dimenticata in un angolo, tra le vecchie fotografie.
«La leggi tu?» propose Masha.
La ragazza aprì delicatamente il foglio: un carattere incerto recitava:
«Carissima Masha, quando leggerai questa lettera io non ci sarò più. Voglio però che tu sappia: il vero sangue non è quello nelle vene, ma quello versato nelle lacrime e nei gesti. Tu sei nostra. Per sempre. Il nonno.»
Quella sera stavano alla fermata dell’autobus. Maria teneva il fazzoletto piegato tra le mani e lo porse a Masha:
«Tienilo come ricordo.»
Masha scosse la testa:
«Lascialo a te. È la nostra storia. Io tornerò, lo prometto.»
L’autobus arrivò dalla curva. Masha abbracciò la madre un’ultima volta:
«Sono tua figlia. Per scelta. È la cosa più importante.»
Maria rimase a guardare l’autobus allontanarsi. Il fazzoletto le scaldava le mani. In tasca aveva la lettera di sua figlia, scritta la notte prima e lasciata sul tavolo:
«Cara mamma, so cosa significa essere trovata. Ora voglio trovare me stessa. Ma ricorderò sempre da dove vengo: dal tuo amore. Grazie per avermi scelta. Tua, Masha.»