I parenti non hanno accolto la madre all’ospedale maternità perché lei non aveva rinunciato a sua figlia.

Il sontoir elegante e spazioso del reparto maternità era affollato. Intorno regnava un’atmosfera di gaudio mista a una lieve tensione. Ovunque correvano parenti felici: uomini emozionati con enormi mazzi di fiori, neo nonne e nonni, nonché numerosi amici e conoscenti. Il brusio delle voci veniva di tanto in tanto interrotto da risate contagiose. Tutti, col fiato sospeso, attendevano l’incontro con i nuovi membri delle loro famiglie.

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«È nato un maschietto! Il primo figlio!» sussurrò con complicità una nonnina ancora giovanissima a una donna lì vicino. Nei suoi occhi brillavano lacrime di felicità e nelle mani stringeva con forza un fascio di palloncini azzurri.

«Noi invece abbiamo due femminucce! Potete immaginare!» esclamò con orgoglio la sua interlocutrice, letteralmente carica di pacchettini rosa. «Hanno già una sorella maggiore: fanno addirittura tre sorelline! Proprio come in una fiaba!» «Incredibile, due gemelle! Che rarità! Accogliete le mie congratulazioni!»

In tutto quel fermento nessuno si accorse della minuta ragazza che, con le mani piene fino all’orlo di buste di plastica, stentava a spingere la pesante porta d’ingresso. «Ma che… un bambino?!» esclamò Igor’, un giovane arrivato per accompagnare la sorella e il nipotino, incredulo. Come era possibile che, tra l’avambraccio e il corpo, fosse ben saldo un minuscolo fagottino avvolto in una copertina? «E i suoi cari? I suoi amici?» pensò sconcertato. Nel suo enorme quartiere non si era trovato nessuno per accoglierla con un neonato così indifeso?

La sua famiglia, al contrario, si era preparata per tempo alla nascita del nipotino e alla dimissione dall’ospedale: un evento tanto memorabile, gioioso e importate nella vita! Igor’ si affrettò ad aiutarla, aprì con decisione la pesante porta e la trattenne finché lei non fu passata, poi entrò subito dietro di lei.

«Le porto io le sue cose fino al taxi!» propose il giovane. «Grazie, non serve…» rispose la ragazza con un sorriso malinconico, gli occhi velati di tristezza.

Ella sistemò con cura il bambino e si diresse verso la fermata dell’autobus. «Vuole proprio prendere il pullman con un neonato?!» pensò Igor’ allarmato, mentre stava per offrirle un passaggio in auto, quando le urla dei parenti lo richiamarono alla sorella e al nipotino. Dimenticando tutto, Igor’ corse da loro.

Irene aveva sempre cercato di essere la figlia ideale. Sua madre l’aveva avuta in età avanzata e lei non aveva mai conosciuto suo padre: si diceva fosse frutto di un fugace amore estivo. Madre e figlia vivevano sole in una casupola all’estremità del villaggio. Irene, fin da piccola, aiutava la madre in casa, studiava con impegno e obbediva senza fiatare. Con lo stipendio modesto di commessa al negozio locale, di certo non potevano permettersi sfarzi, e quando sua madre si ritirò, le difficoltà economiche aumentarono.

Irene sognava di diventare grande in fretta: ottenere un’istruzione, trovare un lavoro ben pagato e così liberare la loro piccola famiglia dalla fame. Così si dedicò anima e corpo allo studio, rinunciando alle uscite con le amiche e alle passeggiate con il giovane Fëdor, suo compagno di banco da anni, timidamente innamorato di lei. «Devi distrarti un po’!» l’esortava la madre, ma Irene rispondeva: «Presto ci saranno gli esami di ammissione, devo superarli con il massimo dei voti. È la nostra unica possibilità!»

E fu proprio così: brillò agli esami e fu ammessa all’università pedagogica in città, coronando il suo sogno. Sua madre, tuttavia, si preoccupò per la sua sistemazione: «Come farai a vivere a città? Io non posso aiutarti economicamente…» «Non ti preoccupare!» la rassicurò Irene, «Mi trasferirò in dormitorio e farò qualche lavoretto serale.»

In realtà, invece di fare la donna delle pulizie, divenne cameriera in un bar, dove incontrò Maksim, un giovane economista che frequentava il locale ogni fine settimana. Il loro legame nacque tra una battuta e un sorriso, e presto iniziarono a frequentarsi. Lui era attento, premuroso, veniva da una famiglia agiata e non aveva alcun problema a farle regali costosi e a portarla in ristoranti eleganti. Irene, pur essendo una ragazza semplice e umile, si sentiva felice e coccolata.

Durante uno dei loro viaggi in Thailandia, Irene scoprì di essere in attesa di un bambino. Inizialmente preoccupata per gli esami imminenti e il lavoro in una ginnasio locale, fu invece sorpresa dalla gioia di Maksim: «Stavo giusto per farti la proposta di matrimonio! Adesso velocizziamo i preparativi: voglio che tu sia ancora una sposa snella!» disse lui con un sorriso.

Irene temeva l’incontro con i genitori di lui, ma invece fu accolta con affetto. La futura suocera, Elena, scelse per lei un elegante atelier per il vestito e la trattò con estrema gentilezza. I preparativi del matrimonio furono sfarzosi: artisti, fuochi d’artificio, un ricevimento grandioso. Irene cercava di non pensare ai costi, mentre Elena la rassicurava: «Tranquilla, posso permettermelo!».

Sembrava un sogno, ma la gravidanza non fu priva di complicazioni. A metà percorso, Irene cominciò ad avere forti nausee e non riusciva più a reggere i normali ritmi di vita. La suocera stava sempre al suo fianco, ma Maksim iniziò a distaccarsi, preferendo le uscite con gli amici piuttosto che stare con lei.

Quando la piccola venne al mondo dopo un travaglio estenuante, fu subito portata via dai medici. Irene temette il peggio. Al mattino seguente, il primario la informò che la bambina, Alëna, era affetta da sindrome di Down e le consigliò di rinunciare a lei, offrendole una nuova gravidanza in futuro. Irene si oppose con fermezza: «Non metterò mai da parte mia figlia!» esclamò.

Iniziò allora la pressione di Maksim ed Elena: telefonate cariche di ansia perché «un bambino speciale richiede troppe energie». Ma Irene restò irremovibile, rifiutando qualsiasi rinuncia.

Quando finalmente fu dimessa, tutti i parenti festeggiavano la dimissione, tranne Irene che, con Alëna in un braccio e le buste in mano, si diresse da sola verso la fermata dell’autobus, senza neppure potersi permettere un taxi.

Rientrata in quella che un tempo era la sua casa con Maksim, trovò una ragazza sconosciuta che indossava una sua maglietta: «Chi siete?» chiese la donna. «La moglie del suo amante», rispose Irene, determinata a abbandonare ogni speranza in lui.

Tornata al villaggio, ricevette il sostegno della madre. Con pazienza e amore, insegnarono ad Alëna a camminare e a parlare, contraddicendo ogni pessimismo dei medici. Irene sposò finalmente Fëdor, il suo primo amore, che non si spaventò delle necessità della bambina e la accolse come figlia. Con lui ebbe due maschietti, mentre Alëna cresceva felice, imparando a recitare poesie e a esibirsi.

Un giorno, un regista di teatro notò le capacità di Alëna e la invitò a Mosca, dove la famiglia si trasferì. Lì la giovane divenne un’attrice apprezzata. Sua nonna, Elisa, visse con loro e tutto sembrava un lieto proseguimento.

Anni dopo, quando Alëna aveva diciassette anni, Maksim, divorziato e con una nuova famiglia, la raggiunse in teatro portandole fiori e un grande senso di colpa. Fece loro molte scuse, ma Irene, con gentilezza, rispose: «Non ti rimprovero nulla. Tutto accade per una ragione. Grazie a te abbiamo Alëna, che è una meraviglia.»

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