— Non ci stiamo divorziando — stiamo semplicemente vendendo il tuo appartamento.

— Amo la luce del mattino — mi è sempre sembrata una promessa. Preparo la colazione, canticchiando sottovoce la canzone che ieri trasmettevano alla radio. In casa è tutto silenzioso. Boris è ancora sotto la doccia, e io sistemo le tazze: quella blu per lui, quella col manico scheggiato per me. È buffo, ma in tutti questi anni mi sono affezionata proprio a quella imperfetta.

Quando è entrato in cucina, ho capito subito che qualcosa non andava. Boris aveva sempre due espressioni prima di una brutta notizia: o cupo, come davanti a un temporale, oppure — come adesso — stranamente soddisfatto, come un gatto che ha rubato la cotoletta dal tavolo.

— Vuoi un tè? — chiedo, pur avendolo già versato.
— Sì, grazie. — Si siede e scarta il giornale. — Sai, ieri ho incontrato un agente immobiliare. Un tipo in gamba.

La mia mano trema, il tè si rovescia sulla tovaglia. La macchia gialla si allarga come un brutto presentimento.

— Quale agente immobiliare? — domando, tamponando con un tovagliolo.
— Vendiamo l’appartamento — fa con aria distaccata, come un bollettino meteorologico. — Lo mostrano domani.

Resto immobile, il tovagliolo bagnato in mano.

— Borja, stai scherzando?
— Che scherzi, Lara? È troppo grande per noi. Compreremo un monolocale vicino alla metro e il resto lo depositiamo sul conto.

— Ma noi… io non intendo trasferirmi — mormoro, sentendo il mondo crollarmi addosso.
— Smettila — continua senza guardarmi — Finisci di mangiare e riordina qui. Domani arrivano gli interessati.

Boris si alza, mi dà un bacio sulla nuca e va verso l’ingresso. La porta sbatte.

E io rimango lì, col panno in mano, fissando il suo tè mezza bevuto. Nella mia testa solo una domanda: quando è successo? Quando sono diventata una persona con cui non vale la pena consultarsi?

Indice

Conversazione con il figlio

Sulla panchina

In studio legale

Chiarezza

Una nuova vita

Conversazione con il figlio
L’appartamento di Anton mi ricordava sempre una fiera di tecnologia: cavi ovunque, strani apparecchietti lampeggianti, schermi giganti. Sul tavolino accanto al divano c’era una tazza di caffè ormai freddo, in terra una pantofole adagiata di lato. Vita da scapolo.

— Mamma, cos’è successo? — il figlio spalanca la porta e si blocca. — Hai un’aria strana… Entra subito.

Sono entrata senza sapere da dove cominciare. Raccontare che tuo padre vuole vendere il tetto sulla tua testa era imbarazzante, come se avessi trascurato qualcosa di fondamentale.

— Preparo un tè — Anton mi spinge verso la cucina. — Siediti.

Si muove freneticamente, con rumore di tazze; io guardo la sua schiena larga, come quella di papà da giovane. Solo il carattere l’ha preso da me: testardo e schietto.

— Papà vuole vendere l’appartamento — riesco a dire mentre mi porge la tazza. — Il nostro. Quello che ho ereditato dai miei genitori.

La tazza si ferma a mezz’aria nella mano di Anton.

— Cosa intendi, “vuole vendere”? È impazzito?
— Dice che è troppo grande, prenderemo qualcosa di più piccolo…

Con un tonfo, posa la tazza.

— Mamma, è casa tua! Non è in comproprietà, vero? Lui non ha alcun diritto!

Abbasso lo sguardo. Certo, l’atto di proprietà è intestato a me, ma dopo quarant’anni di matrimonio ci eravamo dimenticati cosa fosse “mio” e cosa “suo”. Era tutto “nostro”.

— Anto’, forse ha ragione? — sussurro. — È una casa grande, e da sola faccio fatica…

— Cosa? — quasi urla. — No, mamma! Questa è manipolazione! Domani vengo qui e ne parlo con papà. Capiremo tutto. Ma basta agenti immobiliari, hai capito?

Un’ondata di vergogna e al tempo stesso di sollievo mi invade. Qualcuno si schiera dalla mia parte. Qualcuno mi ha detto che non sono pazza.

— Troppo tardi, Anto’. Domani già arrivano per l’ispezione.
— Allora ci sarò anche io — la sua voce è ferma come quella di un giudice. — E scoprirò la verità. Basta giochi di nascosto.

Annuisco, mentre dentro di me si risveglia qualcosa di a lungo sopito. Forse… la dignità?

Sulla panchina
Il nostro cortile è sempre stato accogliente — vecchi tigli, panchine dove d’estate si riunivano i pensionati. Qui tutti si conoscono. Un tempo io e Boris passeggiavamo qui col piccolo Anton, e ora sono seduta da sola, rimuginando su quella strana conversazione.

— Signora Larisa Petrovna! — mi chiama Nina Semenovna, la vicina del quarto piano. — Disturbo?

Mi sposto sulla panchina. Nina è di quelle che conoscono ogni novità del palazzo, ma, a differenza di altri, non le inventa.

— Sei un po’ pallida — si accomoda accanto a me, aggiustandosi il vestito. — Sarà il cambio di stagione…

— No, è solo che… — esito. — Vendiamo l’appartamento, ci sono molte complicazioni.

— Vendete? — lei si gira verso di me complice. — Tu e Boris?

Annuisco, stringendo il fazzoletto.

— Strano — dice. — Già la seconda volta, eh?

— In che senso “seconda”? — chiedo, sorpresa.

Nina esita, come se volesse ritirare le parole.

— Sa, lui era già sposato prima di voi. Non a lungo, però.

Sapevo del primo matrimonio di mio marito, ma non avevo mai approfondito.

— Anche lì c’era di mezzo un appartamento — continua lei a voce bassa. — Lo so perchè lo conoscevo già allora. Loro due vivevano qui, e poi lei se ne andò presto. Si mormorava che lui l’avesse mandata via con un trucco… Ma saranno soltanto voci.

Il cuore mi accelera. Ritornano alla mente frammenti di vecchie confidenze, accenni che avevo ignorato.

— E poi… — Nina si china ancora — sembra che abbia dei debiti grossi. Ho visto gente poco raccomandabile bussare alla porta, chiedere soldi.

Stringo i pugni. Boris non ha mai voluto parlare di soldi. Mi portava parte dello stipendio, il resto era un mistero. Una vecchia abitudine.

— Forse sarebbe meglio controllare i documenti — conclude Nina battendomi leggermente sulla mano. — Non si sa mai cosa hanno in mente gli uomini. Meglio tutelarsi.

Tornando a casa, capisco che domani tutto cambierà. Anche se l’agente non verrà mai.

In studio legale
Lo studio dell’avvocato è piccolo ma ordinato. Pareti chiare, una pianta sul davanzale, pile di carte ordinate con cura. Profuma di caffè e di agrumi — forse un deodorante.

— Accomodati, signora Larisa Viktorovna — dice Elena Sergeevna, una donna sui cinquant’anni, con taglio di capelli corto. — Racconti pure.

Estraggo dalla borsa i documenti — atto di proprietà, passaporto e altri fogli raccolti in fretta. Le mani mi tremano un po’.

— Mio marito vuole vendere il mio appartamento senza il mio consenso — inizio, sentendomi ridicola.
— È intestato a lei? — l’avvocato esamina i documenti.
— Sì… l’ho ereditato dai miei genitori, prima della Perestrojka.

Lei prende appunti mentre io fisso le mie vecchie scarpe. I tacchi sono già logori — devo comprarmene un paio nuovi. Così strani i pensieri in momenti importanti.

— Ascolti bene, signora — finalmente parla — Senza la sua firma nessuno può vendere quell’appartamento. È proprietà esclusiva. Anche se venissero in cento agenti, senza la sua firma qualsiasi atto di compravendita è nullo.

Un peso mi si toglie dal petto, come se una molla compressa si liberasse.

— E le visite per gli “open house”? — chiedo.
— Sono solo parole. Lasci che guardino tutto il giorno se vogliono, ma senza il suo consenso non è affare loro — sorride Elena Sergeevna. — Le consiglio comunque di tutelarsi.

Annota alcuni punti: «Verificare l’assenza di procure firmate», «Custodire gli originali in luogo sicuro», «Parlare col marito in presenza di testimoni».

— Inoltre — aggiunge restituendomi le carte — può chiedere al registro immobiliare un divieto di trascrivere atti senza la sua presenza. Un’assicurazione in più, ma non guasta.

Esco dallo studio con la sensazione di aver imparato a nuotare. Fa paura, ma ora so restare a galla. In metropolitana, guardando il mio riflesso sul vetro scuro, mi sorprendo a sorridere. La legge è dalla mia parte. E anche mio figlio. Non sono più sola.

Chiarezza
La sera è afosa. Dalla finestra aperta non entra nemmeno una brezza, solo il rumore delle auto sul viale. Taglio le verdure per l’insalata quando sento la chiave nella serratura: Boris. Poi un secondo suono — il campanello: è Anton, preciso come sempre.

Sento la sua voce sorpresa:

— Che ci fai qui?
— Sono venuto da mamma — risponde calmo, ma io riconosco quel tono: è il suo modo di trattenere la rabbia.

Entrano quasi insieme: il marito con aria contrariata, il figlio deciso, pronto allo scontro.

— Lara, che succede? — Boris mi dà un bacio sulla guancia come sempre.
— Sedetevi — indico le sedie — Dobbiamo parlare. Tutti e tre.

— Di cosa parliamo? — scrolla le spalle lui. — Se hai coinvolto Anton per il trasloco, ti sbagli. Faccio tutto per il nostro bene.

— “Nostro” o “tuo”, papà? — Anton in

crocia le braccia. — Mamma mi ha raccontato tutto: agente, piani e via dicendo.

— I piani sono condivisi — si irrita Boris. — A te fa fatica pulire, casa è grande…

— Basta — interrompo posando sul tavolo il piatto di verdure. — Parliamo chiaro, Boris. Questa è casa mia, non ho firmato nulla. Non voglio vendere.

Boris tossisce, come se fosse rimasto senza parole.

— Sei andata dall’avvocato?
— Ebbene sì — dico con decisione — Ora so i miei diritti. Questa casa è mia, la gestisco io.

— Lara, stai esagerando! — alza la voce.
— Proprio per questo siamo una famiglia: le decisioni serie si fanno insieme, non alle spalle!

— Sto facendo la cosa giusta! — batte il pugno sul tavolo. — Non capisci la fortuna che hai!

Anton avanza:

— Papà, diciamo la verità: hai debiti, vero?
Boris impallidisce. Il silenzio cala, rotto solo dal ticchettio dell’orologio.

— Sono affari miei — sussurra infine.
— Affari tuoi? Con i soldi di mamma? — Anton scuote la testa. — No, grazie. Mamma, tu che decidi?

Respiro a fondo e guardo Boris negli occhi:

— Redigo subito un contratto prematrimoniale retroattivo. E stop alle vendite. Tu, invece, faresti meglio a prenderti un’altra sistemazione. A riflettere.

Sul suo volto scorgo incredulità, rabbia e confusione insieme.

— Non puoi…
— Non ti sto cacciando — rispondo calma — Ti restituisco solo il diritto di decidere della tua vita.

Una nuova vita
I raggi del sole danzano sul muro grazie a un vaso di vetro che proietta riflessi. Dentro, tulipani gialli comprati ieri al mercato: i primi fiori di questa primavera. Ora appartengono a casa mia, sul serio.

Sono passate tre settimane da quella sera. Tre settimane di silenzio, di sonni tranquilli e di un’insolita, dolce sensazione di libertà. Boris se n’è andato il giorno dopo — ha detto che, se comporto così, non resterà umiliato. Ha portato via le sue cose: attrezzi da pesca, la collezione di monete, tutto.

Mia madre mi ha chiamata, adirata: “Tanti anni insieme… come hai potuto?” Non ho risposto. Cosa si può dire?

— Mamma, il tè è pronto? — Anton interrompe i miei pensieri entrando con una vecchia t-shirt di una band rock e un libro in mano.
— Arrivo subito — dico, alzandomi.

La casa ora è diversa: poltrone spostate, una tovaglia nuova, i libri che prima polverosi ora sul tavolo. È come se la stessi riconquistando pezzo per pezzo.

Ci sediamo in cucina con tè e torta di mele appena sfornata.

— Come stai, mamma? — mi chiede Anton guardandomi con attenzione.
— Stranamente… bene — rispondo sorridendo. — Pensavo avrei avuto paura, ma mi sento in pace.

— Sei stata grandiosa — mi stringe la mano. — Hai difeso te stessa.

Fuori, i passeri cinguettano. Il cortile si anima dopo l’inverno: il netturbino spazza foglie vecchie, una giovane mamma spinge il passeggino.

— Ho dei programmi, Anton — dico sorseggiando il tè. — Vorrei iscrivermi a un corso di informatica. E forse… anche a lezioni di danza.

Lui sorride, non in modo ironico, ma felice.

— Fantastico, mamma! E ho già un’idea: quest’estate andiamo insieme in Crimea. Affittiamo una casetta sul mare. Ci sei mai stata?

— Mai — scuoto la testa. — Sempre rimandato, perché a Boris non piaceva il sud.

Parliamo a lungo, progettiamo l’estate. Guardo mio figlio, ormai adulto, e realizzo quanto sia strano: tutta la vita ho temuto la solitudine, mi aggrappavo a un’unione diventata solo abitudine. Ma ho scoperto che la vera paura è perdere se stessi.

Quando Anton esce per le sue commissioni fino a sera, torno alla finestra. Nel cortile la vita scorre tranquilla: qualcuno rincasa, altri escono. I bambini giocano, gli anziani stanno sulle panchine.

E io resto qui, nella mia casa, con le chiavi in mano. Nessuno potrà più entrare senza il mio permesso. E questa sensazione, insolita e meravigliosa, è la misura della felicità.