— C’è qualcuno lì, — sussurrò Anja, dirigendo il debole fascio della torcia sotto il ponte.
Il freddo penetrava fin sotto la pelle, il fango autunnale si appiccicava alle scarpe rendendo ogni passo sempre più faticoso. Dopo il lungo turno di dodici ore all’ambulatorio medico, le gambe le dolevano dalla stanchezza, ma quel suono strano — un lieve singhiozzo nel buio — la distolse all’istante dalla fatica.
Scendendo con cautela per il pendio scivoloso e appoggiandosi alle pietre bagnate, Anja intravide nel fascio di luce una piccola sagoma rannicchiata contro il pilastro di cemento del ponte. Piedi nudi, la camicina leggera inzuppata d’acqua, il corpo tutto sporco di terra.
— Santo cielo… — sussurrò, avvicinandosi in fretta al bimbo.
Il bambino non reagì alla luce: gli occhi erano chiusi da una pellicola torbida, come se guardasse attraverso una membrana ma non vedesse nulla. Anja fece scorrere delicatamente la mano davanti al suo viso: le pupille rimasero immobili.
— È cieco… — mormorò, con il cuore stretto dal dolore.
Togliendo la giacca, lo avvolse con cura e lo strinse a sé: il suo corpicino era freddo come ghiaccio.
Il vigile Nikolaj Petrovic arrivò un’ora dopo, ispezionò attentamente il posto e appuntò tutto sul taccuino. Scosse tristemente la testa:
— Sembra che qualcuno abbia abbandonato il bambino qui come un rifiuto. Ultimamente capita spesso. Sei ancora giovane; domani lo porteremo all’orfanotrofio.
— No, — rispose decisa Anja, stringendo il piccolo tra le braccia. — Non lo lascio. Lo porto a casa con me.
A casa lavò con delicatezza il fango dal suo corpo usando l’acqua tiepida in una vecchia bacinella. Lo avvolse in un lenzuolo a fiori di camomilla — proprio quello che sua madre aveva conservato “per ogni evenienza”. Il bambino quasi non mangiava e non parlava, ma quando Anja lo sistemò accanto a sé, afferrò teneramente un suo dito con le manine piccole e lo tenne stretto per tutta la notte.
La mattina seguente bussò la madre. Vedendo il bimbo, trasalì.
— Capisci quello che stai facendo? — chiese piano, temendo di svegliare il ragazzo. — Hai solo vent’anni, sei senza marito né mezzi…
— Mamma, — disse Anja con calma ma fermezza, — è una mia decisione, e non la cambierò.
— E se i genitori dovessero farsi vivi?
— Dopo tutto quello che ha subito? — rispose Anja con amarezza. — Vediamo se avranno il coraggio.
La madre se ne andò sbattendo la porta. Ma la sera il padre, in silenzio, lasciò sulla veranda un cavallino di legno — un giocattolo di pezza che aveva intagliato e rifinito con cura — e disse sommessamente:
— Domani porto patate e latte.
Era il suo piccolo segno di appoggio.
I primi giorni furono duri: il bambino stentava a parlare, mangiava poco, sobbalzava al minimo rumore. Ma dopo una settimana trovava già la mano di Anja nel buio, e quando lei cantava le ninna nanne, sorrideva per la prima volta.
— Ti chiamerò Petja, — disse un giorno mentre gli pettinava i capelli dopo il bagnetto. — Ti piace questo nome?
Lui stette in silenzio, poi si avvicinò.
In paese si sparse subito la voce del ritrovamento: c’era chi provava compassione, chi giudicava, chi restava meravigliato. Ma Anja non badava a niente — il suo mondo era diventato quel piccolo bimbo, a cui aveva promesso un tetto, calore e amore. E per lui era pronta a tutto.
Passò un mese. Petja sorrideva quando sentiva i passi di Anja. Aveva imparato a tenere il cucchiaio, ad aiutarla a stendere i panni, a riconoscere le mollette al tatto e porgerle una per una.
Una mattina, seduta sul bordo del suo letto, sentì il bambino accarezzarle la guancia e sussurrarle:
— Mamma.
Anja si fermò, il cuore le martellava nel petto come se stesse per mancarle il fiato. Prese le sue manine tra le sue e le sussurrò:
— Sì, piccolino. Sono qui e sempre sarò con te.
Quella notte quasi non chiuse occhio: vegliò accanto al suo letto, accarezzandogli la testa e ascoltando il suo respiro regolare. Al mattino arrivò il padre.
— Ho un conoscente all’amministrazione, — disse togliendosi il cappello. — Ti aiuteremo a ottenere l’affidamento, non ti preoccupare.
Anja pianse — non per dolore, ma per la gioia che le aveva riempito il cuore.
Un raggio di sole accarezzò la guancia di Petja. Non batteva le palpebre, ma sorrise al suono della voce di Anja.
Sono passati quattro anni. Petja ha ormai sette anni, e Anja ventiquattro. Il ragazzino conosce ogni angolo della casa, ogni gradino. Si muove con agilità, come se percepisse lo spazio non con gli occhi, ma con il cuore.
— C’è Milka sulla veranda, — disse un giorno mentre versava l’acqua dalla brocca. — Il suo passo suona come il fruscio dell’erba.
La gatta rossa era diventata sua compagna fedele: capiva che Petja era speciale e non la lasciava mai, quando lui cercava la sua zampetta.
— Sei un tesoro, — lo baciò Anja sulla fronte. — Oggi verrà una persona che potrà aiutarti ancora di più.
Quella persona fu Anton Sergeevič — un uomo magro, con i capelli striati di grigio, nuovo in paese e soprannominato “lo strambo della città”, ma Anja colse in lui la bontà di cui Petja aveva bisogno.
— Salve, — disse Anton silenzioso entrando.
Petja, solitamente timido, gli tese la mano:
— Salve. La sua voce è come il miele.
Anton si inginocchiò e tirò fuori un libro con caratteri in rilievo.
— Questo è per te, — sorrise. — Braille.
Petja fece scorrere le dita sui puntini e per la prima volta sorrise a tutto volto:
— Sono lettere? Le sento!
Da allora Anton venne ogni giorno a insegnare a Petja a leggere e scrivere in Braille, a esplorare il mondo con tutto il corpo. Gli insegnò ad ascoltare il vento, a distinguere gli odori, a intuire gli umori dalle voci.
— Il suo udito è da poeta, — commentava Anton con Anja.
Petja raccontava spesso i suoi sogni:
— Nei sogni vedo i suoni. I rossi sono forti, i blu sono leggeri, i verdi quando c’è Milka vicino.
Amava sedersi accanto al focolare e ascoltare il crepitio della legna:
— La stufa parla quando ha caldo, se fa freddo tace.
La vita scorreva serena. L’orto dava frutti, i genitori aiutavano, la domenica Anja cucinava una torta che Petja chiamava “il sole in forno”. Il bambino riconosceva le erbe dall’odore e sentiva arrivare la pioggia.
— Il cielo si piegherà e piangerà, — diceva.
I vicini in città suggerivano:
— Lì potrebbe studiare, chissà chi sarebbe diventato.
Ma Anja e Petja rispondevano di no:
— Lì non sento il fiume né i meli. Qui è la mia casa.
Anton registrò i racconti di Petja su un registratore e li presentò in biblioteca: la platea ascoltò in silenzio, alcuni piansero.
Da allora nessuno propose più di portare Petja in istituto: al contrario, arrivarono fondi per acquistare libri in Braille.
Petja non era più “il bambino cieco”, ma colui che vede il mondo a modo suo.
— Oggi il cielo suona, — disse in piedi sulla soglia.
Compiva tredici anni. Era cresciuto, i capelli schiariti, la voce più profonda.
Anja aveva trent’anni ma sorrideva più spesso, sapendo che la sua vita aveva trovato un senso.
— Andiamo in giardino, — propose Petja, prendendo il bastone.
All’ingresso si fermò:
— Qualcuno viene. Un uomo con passi pesanti.
Anja ascoltò.
Dietro l’angolo apparve uno sconosciuto: alto, largo di spalle, viso abbronzato, occhi chiari.
— Salve, — fece un cenno col capo. — Sono Igor. Sono venuto a riparare l’elevatore.
— Da noi? — chiese Anja.
— Sì, mi hanno detto che posso prendere una stanza.
Petja fu il primo a parlare:
— La sua voce è come una vecchia chitarra — calda e gentile.
Igor sorrise:
— E tu, poeta.
Anja invitò l’ospite in casa.
Igor era ingegnere e aveva viaggiato molto. Restò un mese in paese, riparando le macchine.
Presto divenne parte della famiglia. La sera sedeva con Petja sulla veranda, parlando di motori e di vita.
— Il trattore ha un cuore? — chiese Petja accarezzando la gatta.
— Ce l’ha, — rispose Igor, — è il motore. Batte regolare come un cuore.
In primavera Igor rifecce il tetto, sostituì la recinzione e sistemò il pozzo.
La sera bevevano il tè insieme ad Anja, parlando di viaggi e perdite.
— Ho visto tanti posti, — diceva Igor, — ma una casa come questa mai.
Quando fu ora di partire, disse:
— Torno tra due settimane. Se posso.
Anja annuì, e Petja lo strinse in un abbraccio:
— Torni. Ora sei dei nostri.
E lui tornò: prima ogni quindici giorni, poi per un mese. In autunno si trasferì definitivamente.
Il matrimonio fu sobrio: parenti stretti, fiori dell’orto, Petja in camicia bianca — scelta insieme. Durante il brindisi Petja disse:
— Non vi vedo, ma so che brillate. Mamma è il sole più caldo.
Ora in casa abitavano Anja, Igor, Petja e Milka, la gatta rossa che amava dormire al davanzale al sole.
Il maestro Anton continuava a venire, e Petja scriveva storie meravigliose, stampate persino fuori dal paese.
Un giorno a Igor offrirono un lavoro in città. La famiglia discusse del futuro.
— Qui sento il fiume, gli alberi e la terra. Qui è la mia casa, — disse Petja.
Igor declinò l’offerta:
— La felicità non dipende dal luogo o dal ruolo, — disse. — La felicità è sentirsi utili.
Petja scorreva le dita sulle pagine in Braille e diceva:
— La neve è il cielo che rallenta il discorso e fa una pausa. Mamma è la luce che resta vicina anche nel buio. Non sono cieco, solo ho occhi diversi.
Anja prese la mano di Igor. Fuori cadeva la prima neve, nel camino il fuoco ardeva e la vita continuava.
Negli occhi di Petja brillava ciò che nessuno vede a prima vista: la luce dell’anima, che abita in ciascuno ma pochi sanno ascoltare.