translate text into italianMarina posò la lettera di dimissioni sulla scrivania del primario — Viktor Ivanovič. Lui tolse gli occhiali, si stropicciò la radice del naso e la guardò con un dolore profondo, quasi paterno, tanto che per un istante lei desiderò ritirare indietro quel foglio.
— Marina, rifletti ancora un po’, — pronunciò con voce dolce. — Forse ti basta riposare? Ti stimiamo, lo sai.
Lei scosse la testa:
— Non posso, Viktor Ivanovič… non qui.
Un senso di colpa mordente non le dava tregua: come madre non era riuscita a proteggere suo figlio, come medico a salvarlo. Ogni pianto di bimbo nei corridoi dell’ospedale le riportava una dolore acuto, ogni risata un rimprovero silenzioso.
Viktor Ivanovič era un uomo dal cuore gentile, un buon capo, sempre pronto a trovare la parola giusta per confortarla. Marina aveva da tempo notato come talvolta lo sguardo di lui si posasse su di lei con calore e un lieve affetto, ma mai si era concesso di oltrepassare il limite: sempre garbato e misurato. Ora nei suoi occhi si leggeva una sincera pietà, e questo la faceva sentire ancora peggio.
«Capisci, ormai io non esisto più — urlava dentro di sé. — Quella Marina che conoscevi è morta insieme ad Andruša».
Dentro di lei c’era un vuoto gelido, rintocchi silenziosi di un vuoto assordante. Avrebbe voluto rannicchiarsi e piangere fino allo sfinimento, ma strinse i pugni, finendo per farsi male con le unghie nel palmo.
— Io… io vado, — balbettò, e fuggì via dallo studio, temendo di scoppiare in lacrime davanti a lui — così vicino umanamente, eppure così lontano.
Unico pensiero fisso: fuggire. Andare dove non conosceva volti amici, sguardi di pietà, dove non si odono risa di bambini che ricordano una perdita irreparabile. Aveva venduto l’appartamento quasi a prezzo di realizzo — al primo che si era presentato, pur di andarsene subito.
Il treno strisciava lentamente lungo un piccolo scalo sperduto tra i boschi. Marina scese su una piattaforma di legno, sentendo la stanchezza in tutto il corpo. Due vecchiette sedute su una panchina la notarono subito.
— Dove vai, cara? Ti sei persa? — chiese una di loro, avvolta in un fazzoletto colorato.
Marina sorrise con tristezza:
— Ho seppellito mio figlio. Ho bisogno di stare da sola.
Le anziane si scambiarono uno sguardo comprensivo.
— Sai, Lidia trasloca in città col figlio. Ha una casa vuota. Bella, solida. Solo che stare del tutto sola… si perde la ragione. Non isolarti completamente dagli altri.
Le diedero l’indirizzo e Marina, ringraziando, si incamminò lungo una strada polverosa verso la sua nuova “casa”, se così si poteva chiamare.
Lidia la accolse con diffidenza, ma quando seppe il motivo del suo arrivo si ammorbidì:
— Stai qui finché vuoi. L’affitto non è alto. Solo una cosa: c’è rimasto solo Timoša — il nostro gatto. Un po’ selvatico, ma caccia i topi. Non fargli del male.
La prima sera in quella casa impregnata di odori di erbe e legno antico sembrò interminabile. Ogni scricchiolio del pavimento, ogni fruscìo fuori dalla finestra risvegliava ricordi. Andruša… avrebbe corso per le stanze, esplorato ogni angolo.
I giorni scorrevano lenti e monotoni. Marina puliva, imbiancava, lavava — impegnava mani e mente in ogni modo. Ma il dolore non la abbandonava. La sera, seduta sulla veranda, raccontava al figlio tutto quello che aveva fatto durante la giornata, e le lacrime le rigavano le guance. Qui, in quel luogo isolato, nessuno la vedeva — e lei non tratteneva il pianto.
Un giorno, quando la nostalgia la strinse più forte, un grande gatto grigio — Timoša — le si avvicinò in punta di piedi sul gradino della veranda. Rimase lì a guardarla con occhi saggi, poi si strusciò contro la sua gamba.
Marina rimase immobile, poi allungò la mano e lo accarezzò. Il gatto cominciò a fare le fusa. Quel suono semplice e vivo scatenò un nuovo pianto. Lei strinse Timoša a sé, nascondendo il viso nella sua pelliccia brusca, e pianse fino a svenire sul gradino, abbracciando l’unico essere vivente abbastanza coraggioso da avvicinarsi.
Dopo un paio di settimane, una vicina le portò un cucciolo — meticcio, magrolino e molto curioso.
— Prendilo, Marina, o lo faranno sparire. Ti terrà compagnia e farà da guardia, — disse la donna.
Chiamarono il cucciolo Grafo — per quel portamento fiero, quasi altezzoso. All’inizio Timoša lo guardava con diffidenza, soffiava e arcuava la schiena, ma ben presto si calmò. Ora dormono insieme vicino al forno, e Marina, per la prima volta da tempo, sorride osservando i loro giochi.
Gli abitanti del villaggio vennero a sapere che nella casa di Lidia viveva una ex dottoressa, e iniziarono a bussare alla porta con richieste semplici — misurare la pressione, fare un’iniezione. Marina rifiutava, diceva che non praticava più, ma vedendo quei volti che le si fidavano, non riusciva a dire di no. Aiutava come poteva, pur evitando conversazioni intime.
Ogni giorno usciva più spesso nel bosco. Grafo correva avanti abbaiando a ogni uccello, e anche Timoša — con sua stessa sorpresa — lo seguiva, saltando agilmente sui tronchi caduti. Il bosco l’accoglieva senza giudicare, senza pretendere nulla.
«Qui posso respirare libera — pensava Marina — posso piangere senza nascondermi, posso semplicemente essere me stessa».
E a poco a poco, molto lentamente, il guscio gelido intorno al suo cuore cominciò a incrinarsi.
Una sera, un’inquietudine strana la colse. Qualcosa di invisibile ma insistente la attirava più in profondità nel bosco.
— Non oggi, — cercò di scacciare quel senso, ma all’improvviso Grafo si agitò davanti alla porta, evidente condividendo la sua ansia.
Indossò la giacca e prese la torcia, seguendo il cane. Grafo la guidò con sicurezza più in là di dove fosse mai stata. In uno degli avvallamenti bui, sotto le radici di una vecchia abete, iniziò a abbaiare freneticamente.
Marina illuminò con la torcia e rimase senza fiato: sul terreno umido giaceva una bambina esanime.
La sollevò tra le braccia, corpo freddo e fragile, e corse a casa. Grafo e Timoša, avvertendo la gravità del momento, non la lasciarono un attimo, girandole intorno e sbattendo i musi contro le sue gambe, come volessero aiutare.
In casa, Marina si mise subito all’opera: strofinò la bambina con alcool, la avvolse in tutte le coperte disponibili, la circondò di borsa dell’acqua calda. Passarono circa due ore prima che la piccola si muovesse e aprisse gli occhi — azzurri pallidi, pieni di paura.
— Dove sono? — sussurrò.
— Sei al sicuro, — rispose dolcemente Marina — come ti chiami?
— Katja… Mio padre è medico, mi salverà.
Il cuore di Marina si strinse dolorosamente.
— Ora vado a cercare aiuto, — disse, uscendo dalla stanza per non farla vedere in lacrime.
Dopo un po’ arrivò il vigile di zona Sergeev, un uomo robusto sui cinquanta, con una vecchia UAZ. Ascoltò il racconto di Marina scuotendo la testa:
— La faccenda è complicata. La bambina non è del posto?
Si scoprì che Katja era arrivata in campagna con la madre, che aveva affittato una casa da parenti lontani. I genitori erano separati: la madre, incline all’alcol e a frequenti litigi, probabilmente aveva spinto la bambina a fuggire nel bosco.
— Ecco la situazione, Marina, — sospirò Sergeev — se avviso i servizi sociali, la tolgono alla madre. E al padre toccherebbe una lunga battaglia in tribunale. Povera bimba.
Marina guardava Katja, il suo viso ossuto, le ciglia tremanti nel sonno, e qualcosa dentro di lei si ruppe.
— Lasciatela stare qui da me, — propose all’improvviso — finché non arriva il padre.
Sergeev la guardò sorpreso, ma nei suoi occhi brillò un calore.
— Sei un tesoro, Marina. Va bene, decidi tu. Hai il numero della madre?
Il giorno dopo alla casa di Lidia arrivò un’auto che Marina conosceva. Ne scese Viktor Ivanovič. Appariva stanco e dimagrito, ma nei suoi occhi c’era ansia e speranza.
— Katja! Figlia mia! — esclamò correndo sul portico, dove la bimba, ormai un po’ rinata ma ancora pallida e spaventata, lo aspettava.
Si abbracciarono stretti, immobili nelle loro braccia. Marina stette accanto, sconvolta da quell’incredibile coincidenza, incapace di pronunciare parola.
Quella sera, quando Katja si addormentò, lei e Viktor si sedettero in cucina. Lui parlò del suo difficile divorzio, della moglie il cui caos aveva rovinato tutto, dei tentativi estenuanti di riavere la figlia. La voce gli tremava, le parole si affastellavano, e Marina ascoltava, riconoscendo nel suo dolore echi del proprio.
Poi lui tacque e la guardò a lungo:
— Grazie, Marina. Hai salvato di nuovo mia figlia. E forse anche me.
Nella sua voce c’era tanta tenerezza e stanchezza che le labbra di Marina tremarono. Quella notte Viktor restò con lei. Non furono dette parole, né promesse — solo un tacito riconoscimento: entrambi avevano attraversato l’inferno e forse, qui, in quel luogo remoto, avevano l’occasione di ricominciare.
Qualche giorno lo trascorsero insieme. Katja si ambientò in fretta — giocava con Grafo e Timoša, raccoglieva bacche nel bosco con Marina. Viktor aiutava nei lavori: spaccava la legna, riparava la recinzione. Marina, per la prima volta dopo lungo tempo, sentì una pace interiore: come se qualcuno avesse acceso con cautela, quasi silenziosamente, una piccola scintilla di speranza nel suo cuore. Non voleva che loro se ne andassero.
Il colpo di scena arrivò all’improvviso. Un’auto straniera stridette i freni nel cortile, e ne uscì una donna scompigliata che urlò:
— Ridatemi mia figlia!
Viktor cercò di calmarla, ma la donna si infuriò ancora di più.
Grafo e Timoša sbucarono fuori: il cane ringhiò, il gatto soffiò così ferocemente che la donna fece un passo indietro.
In avanti avanzò Marina.
— Katja resta con suo padre, — disse con fermezza. — È meglio che ve ne andiate.
La sua voce era così sicura che la donna, esitante, risalì in macchina e partì. Il vigile, richiamato dai vicini, si limitò a scrollare le spalle.
Quella sera, quando tutto si calmò, Viktor si avvicinò a Marina:
— Allora, tentiamo di ricominciare?
Le prese la mano. Lei lo guardò, guardò Katja rannicchiata accanto a lei, la casa diventata famiglia, Grafo e Timoša, e annuì:
— Sì, — disse pianissimo. — Ci proveremo.