«E pensate solo: questa donna delle pulizie ha lasciato macchie sporche sulle enormi finestre! È impossibile tollerare una tale negligenza!» sbottò indignata Ninel’ Bronislavovna, madre della futura sposa di Denis, e la sua voce squarciò il silenzio del ristorante di lusso.
I lampadari, scintillanti come ghiaccio, si riflettevano nei calici di cristallo, un violino intonava una melodia sommessa, ma Uljana avvertì un brivido gelido percorrerle la pelle.
«Ho detto chiaramente a Denis: nel nostro nuovo ufficio di Prospekt Mira devono lavorare solo professionisti di altissimo livello!»
Ufficio. Pareti di vetro panoramiche dal pavimento al soffitto. Uljana le conosceva a memoria. Ogni notte, dalle dodici alle sei, le aveva pulite, cancellando impronte digitali altrui e tracce di lusso disinvolto.
Quella stessa «incurante donna delle pulizie» di cui ora parlavano con disprezzo era lei.
Le tremarono le dita mentre stringevano la pesante forchetta d’argento. Il metallo cadde colmo di un tonfo sordo sul marmo.
«Oh, scusate…» mormorò Uljana, sentendo le guance ardere. Si chinò goffamente per raccoglierla.
Avvertì Denis irrigidirsi. Il suo sguardo, rapido e irritato, la sfiorò. Per tutta la sera era stato teso, timoroso di ogni parola, di ogni gesto di lei. Incespicò nel chinarsi nuovamente.
In quel momento, sotto la candida tovaglia bianca, vide le proprie mani. Nonostante l’unica manicure fatta in dieci anni e la crema costosa, nulla riusciva a nascondere la verità.
Macchie grigie incastrate nella pelle, piccole abrasioni dagli agenti chimici aggressivi, calli giallastri sui palmi. Quelle mani erano la mappa della sua vita: le mani che avevano comprato al figlio i primi libri, lavato la sua divisa, pagato la sua istruzione, cullato il suo corpo malato.
Quando si raddrizzò, incrociò lo sguardo gelido e penetrante di Ninel’ Bronislavovna. Lei non la guardava, il suo sguardo era fisso sulle mani che Uljana frettolosamente nascose sulle ginocchia.
E allora vide – il volto di Denis si deformò. Non era solo vergogna. Era panico. Paura di essere scoperto. E, in un attimo, lui la colpì – sua madre.
Con un sorriso tirato, quasi servile, disse ad alta voce, artificialmente allegro, rivolgendosi a Ninel’ ma prendendola di mira con ogni parola:
«Mia madre è un’autentica appassionata di giardinaggio! Le dico: “Metti i guanti!”, ma lei tocca la terra a mani nude, la adora. È così, semplice e genuina.»
Nel petto di Uljana tutto si spezzò. Non aveva solo mentito. L’aveva pubblicamente rinnegata – rinnegato il suo lavoro, la vita che aveva dedicato a lui. Aveva ridotto i suoi anni di fatiche a un passatempo rustico, pur di compiacere quei signori.
Si alzò lentamente. La musica del violino divenne d’un tratto estranea, falsa, stridente.
«Scusate, non mi sento bene. Devo andare.»
Senza aspettare il dolce, uscì lasciando dietro di sé sguardi sbalorditi, il sommesso brusio di Denis e un ghiacciato silenzio. Camminò per le strade illuminate della città e per la prima volta in vita sua si sentì davvero sporca.
Non a causa dei residui sotto le unghie, ma per la vergogna appiccicosa e amara che le aveva inflitto il proprio figlio. Le aveva sottratto l’ultimo bene: la sua dignità.
Tutto era iniziato una settimana prima di quella cena. Denis l’aveva chiamata, e nella voce che lei conosceva fin dal giorno della sua nascita suonavano note estranee e fredde.
«Mamma, voglio presentarti i genitori di Milana. È importante.»
«Certo, figlio mio, sarò felice…» rispose lei con semplicità.
«No, non capisci», la interruppe con tono secco. «Non è una cena qualunque. È come un colloquio. Dipende la mia carriera. Suo padre è un uomo influente. Vengono da un altro mondo. Completamente diverso.»
Uljana tacque, un’ansia pesante e glaciale si diffuse in lei.
«Devi apparire… come si deve. Metti quel vestito blu che ti ho regalato. Ti giro i soldi, vai in un salone, fatti fare acconciatura e manicure. E la cosa più importante…» fece una pausa, e quel silenzio la trafisse come un colpo.
«Ti prego, non dire che lavori per pulire, né del mercato, né della fabbrica. Non una parola. Ho detto che sei in pensione, che hai una casa in campagna e ti occupi di fiori. Devi sorridere, annuire e parlare il meno possibile.»
«Figlio mio… hai vergogna di me?» bisbigliò lei a fatica.
«Mamma, non iniziare!» strillò lui. «Non è vergogna, è calcolo razionale! Vuoi che resti sempre in quel posto da quattro soldi? Ho un’opportunità! Non rovinarla!»
Lei riattaccò. Cosa poteva dire? Che da diciotto anni, quando il padre di Denis – un bello studente – sentì della gravidanza e le fece «i tuoi problemi» sparendo, la sua vita non le apparteneva più?
I ricordi si affioravano come incubi: lei, giovane, a staccare cicche da terra nella mensa scolastica che puzzava d’aceto; lei trentenne, in un giubbino sgargiante, a rompere il ghiaccio all’ingresso alle quattro del mattino, poi di corsa a mettere il figlio a scuola.
Non ricordava l’ultima volta che si era riposata: notti nello stabilimento chimico, il cloro che le graffiava la gola, ma bisognava comprare a Denis le scarpe da ginnastica per non farlo prendere in giro.
Aveva rinunciato all’amore, al sonno, a se stessa. Quando lui entrò all’università, lei prese un secondo lavoro – pulire le scale di un palazzo di lusso – per comprargli un portatile. Tutta la sua vita era stata una corsa dove il premio era il suo successo.
E ora lui le chiedeva di sparire, di nascondere tutto ciò che aveva fatto, come un segreto vergognoso. E lei aveva acconsentito. Per la sua occasione era disposta a diventare invisibile.
Il giorno dopo la cena lo chiamò. Non rispose. Un’ora dopo, fu lui a telefonare.
«Allora, soddisfatta?!» urlò al telefono, impedendole di parlare, con voce carica di rabbia e risentimento. «Hai rovinato tutto!»
«Denis… per una forchetta?» sussurrò lei.
«Non venirmi con queste scuse! – sbraitò lui – L’hai fatto apposta! Volevi che tutti vedessero quelle mani! Vuoi farmi apparire il figlio di una donna delle pulizie! Non potevi stare zitta, come ti ho chiesto?»
«Io non…»
«Cosa “non”?! Milana è inorridita! I suoi genitori ora mi guardano come un bugiardo! Ninel’ Bronislavovna ha chiesto: “E il vostro giardino, per caso non è sul tetto del vostro centro direzionale?” Capisci che figuraccia mi hai fatto fare?!»
Lui urlava, lei taceva. Il gelo dentro di lei si faceva appiccicoso e opprimente. Non provava solo vergogna: sentiva odio – perché lei era il suo passato, un passato che voleva cancellare.
«Basta! Devo sistemare tutto! Non chiamarmi. Ti farò sapere se serve qualcosa» e riattaccò.
Non la contattò più. Né una settimana, né un mese dopo. Della sua sontuosa cerimonia di nozze, a cui non era invitata, Uljana venne a sapere per caso da un’ex vicina, zia Valja. Con entusiasmo sfoggiò foto sul telefono:
«Guarda, Uljana – disse – che sposo hai! E la sposa è un incanto! Pare che l’abito sia arrivato direttamente dalla Francia!»
Uljana fissò le immagini: suo figlio, pettinato con cura, compiaciuto, accanto a una ragazza elegante in bianco, sullo sfondo di una sala con specchi e fiori. Sentì qualcosa al suo interno spegnersi per sempre: ciò che si chiamava speranza.
Da quel giorno si immerse in una nebbia fitta. Andava al lavoro, puliva meccanicamente pavimenti e pareti, ma dentro era vuota. Il dolore acuto si trasformò in un dardo sordo e fisso, impossibile da estrarre. Perse peso, invecchiò, smise di rispondere alle telefonate, svanì dalla vita degli altri come se non fosse mai esistita.
Una notte, dopo aver finito di pulire il bagno di un altro business center, alzò gli occhi allo specchio. Era limpidissimo e intatto. E lei – non una donna, un fantasma.
Occhi spenti, guance scavate, labbra piegate verso il basso. Era il volto di chi è stato tradito, cancellato, dimenticato.
E allora – uno scatto. Dentro di lei, un click. Il dolore si ritirò, lasciando posto a una rabbia fredda e lucida, come pietra o ghiaccio.
«Bene», pensò guardandosi, lo sguardo finalmente dritto e deciso come l’acciaio, «ora vi mostro cos’è la vera pulizia: non quella che si vede, ma quella che si sente nell’anima.»
Il giorno dopo si presentò da Petrovič, il caposquadra, uomo severo ma giusto che l’aveva sempre apprezzata per la sua tenacia.
«Petrovič, me ne vado.»
«Dove vai?» chiese lui sorpreso. «In pensione? Ma hai ancora forza.»
«Apro un’attività mia», rispose lei con calma.
Lui la scrutò dalla testa ai piedi, rabbrividendo.
«E cosa potresti fare? Non hai un soldo.»
«Ho le mani», disse Uljana, «e la testa. E, soprattutto, l’onestà. È più che sufficiente.»
Si dimise da ogni incarico. Ipotecò il suo piccolo appartamento – l’ultimo bene rimastole – e ottenne un modesto prestito. Con quei soldi acquistò attrezzature professionali: un generatore di vapore, un potente aspirapolvere e i migliori detergenti tedeschi.
Le prime collaboratrici – Marija e Galina – vennero per vecchia amicizia. Marija, madre single scappata da un marito violento; Galina, donna timida licenziata dalla fabbrica dopo trent’anni di servizio.
«Ragazze, non potrò pagare subito cifre alte», disse Uljana radunandole in cucina, «ma prometto: lavoreremo come se ogni incarico fosse l’ultimo. Nessun compromesso: o perfetto o niente.»
«E come chiameremo l’azienda?» chiese Marija.
Uljana rifletté e poi sorrise per la prima volta dopo tanto tempo, con genuinità e luce negli occhi.
«“Coscia Candid**,**» concluse. «Perché è l’unica cosa che non si può rubare, comprare o togliere.»
Il loro primo lavoro fu pulire l’appartamento di affittuari disonesti. L’odore era così insopportabile che altre imprese di pulizie rifiutarono l’incarico. Uljana propose un prezzo a metà.
Per due notti di seguito non dormì; raschiarono pavimenti, lavarono pareti imbevute di muffa, sgrassarono ogni angolo. Quando la proprietaria, esausta e con i due figli, tornò a casa, si fermò sulla soglia.
L’appartamento brillava, profumava di freschezza e nuova vita.
«Come avete fatto?» sussurrò toccando il davanzale come se temesse svanisse.
«Con una coscienza pulita», rispose Uljana porgendo il conto.
La donna lasciò un’ottima recensione nella comunità di quartiere e consigliò il loro servizio a tutti. Il nome “Coscia Candida” si diffuse in città come leggenda: la piccola impresa che affrontava ciò che altri ritenevano impossibile.
Uljana non spese un soldo in pubblicità: la sua reputazione fu la miglior promozione, fondata su qualità impeccabile. Pulivano dopo incendi, ripristinavano capannoni industriali e risuscitavano ville abbandonate.
Con ogni lavoro, ogni «grazie», ogni guadagno, lei diventava più solida. Le spalle si raddrizzavano, lo sguardo si faceva più fermo e l’anima si alleggeriva. Non si nascondeva più: era Uljana Andreyevna, fondatrice e proprietaria di “Coscia Candida”.
Trascorsi due anni, l’impero del suocero di Denis continuava a espandersi e la sua azienda si trasferì in un nuovo ufficio nel grattacielo più lussuoso della città: finestre panoramiche, pavimenti in marmo, aria intrisa di profumo di denaro e successo.
Per le pulizie finali dopo i lavori, per sua segnalazione il partner scelse la miglior ditta in città: “Coscia Candida”, celebre per perfezione e capacità di gestire i progetti più difficili.
«Finalmente!» esclamò Ninel’ Bronislavovna nell’ingresso scintillante, tracciando un gesto teatrale sul bancone di vetro. «Spero che queste famigerate signore delle pulizie non deludano. Dopo i muratori qui era un disastro! Denis, assicurati che la titolare verifichi personalmente. Voglio un risultato impeccabile a questo prezzo.»
«Certamente, mamma», rispose Denis, sistemandosi la cravatta. «Dicono che sia molto esigente.»
In quel momento le porte di vetro si spalancarono. Nell’atrio entrò una donna in tailleur blu scuro, acconciatura perfetta, orologio elegante al polso. Dietro di lei avanzava un uomo sicuro di sé in abito scuro, con un tablet in mano.
Ninel’ e Denis si raddrizzarono, convinti di trovarsi davanti a un personaggio importante.
«Buongiorno…» iniziò Ninel’, stendendo un sorriso.
La donna si fermò, li scrutò lentamente con freddezza e precisione, senza trasparire alcuna emozione.
Il sorriso di Ninel’ si spense. Denis impallidì, le labbra tremarono come se volesse dire qualcosa ma non ne fosse capace.
Era Uljana.
Ma non l’avevano riconosciuta. Non più quella donna di cui si vergognavano. Lì stava in piedi una regina: forte, composta, sicura di sé. Nei suoi occhi non c’era dolore ma potere.
«Ma… mamma?» sussurrò Denis, come di fronte a un’apparizione.
Ninel’ gli afferrò il braccio con terrore, il volto contratto dallo shock e dalla paura di realizzare il loro errore.
Uljana non li guardò e si rivolse al complice.
«Viktor, controlla i giunti dei battiscopa e le griglie di aerazione. Rapporto completo in cinque minuti.»
«Subito, Uljana Andreyevna», rispose l’uomo con rispetto e si mosse lungo il corridoio.
Poi Uljana si infilò un sottile guanto bianco, toccò il davanzale della finestra panoramica: il guanto rimase immacolato. Lo tolse e porse a Denis una cartellina di pelle.
«L’intervento è concluso. La qualità rispetta gli standard di ‘Coscia Candida’. Documenti e fattura sono qui; il mio assistente vi contatterà per il pagamento.»
Denis la fissava: le sue mani curate, la manicure impeccabile, la postura regale, la calma assoluta. Non poteva proferire parola. Nei suoi occhi leggeva orrore, pentimento e amara consapevolezza: aveva perso non solo sua madre, ma se stesso.
«Buona giornata», disse Uljana, e senza voltarsi si diresse verso l’uscita.
In quel momento si riprese tutto: la dignità, l’orgoglio, il diritto di esistere e di avere uno spazio nel mondo.
Il suo caposquadra Viktor, silenzioso e solido come roccia, teneva già aperta la portiera dell’auto. La guardava con ammirazione, rispetto e un sorriso caldo, quasi materno.
Quando Uljana uscì alla luce del sole, per la prima volta dopo anni sentì che la sua felicità non era un lontano miraggio: era lì, dentro di lei, reale e presente.