La vedova inconsolabile affrettava i funerali del ricco marito, ma una giovane dottoressa notò una stranezza.

Angela si avviava al turno con passo leggero e luce negli occhi. Cos’altro le restava, se amava follemente il suo lavoro? I colleghi scherzavano, dicendo che “Angelina” viveva tra le nuvole. Come si può essere così devoti a una professione con tanta responsabilità e uno stipendio tutt’altro che brillante? Ma per lei non era solo un lavoro: era una passione. E non aveva alcuna intenzione di cambiare.

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Le piaceva correre sui casi più difficili, cogliere il barlume di speranza negli occhi di chi attendeva il suo aiuto, salvare persino coloro che, a prima vista, parevano irrecuperabili. Si era diplomata con il massimo dei voti e molti le pronosticavano una carriera vertiginosa in grandi cliniche. Tuttavia, dopo il tirocinio al pronto soccorso, Angela capì: il suo posto era lì. Da sette anni ormai si dedicava al lavoro senza riserve.

Era talmente assorbita dalla professione che per la vita privata praticamente non restava tempo. E, a dirla tutta, non ne aveva nemmeno tanta voglia. Il passato legato alla famiglia aveva lasciato troppa sofferenza.

— Angelino, è ora del turno! — le nonnine all’ingresso del palazzo la salutavano ogni volta con calore. Lei non passava mai oltre limitandosi a un cenno.

— Buongiorno, ragazze. Sì, di nuovo al lavoro!

Una delle vecchiette scosse la testa. Di nuovo notturna.

— Perché non ci sono uomini tra voi che possano lavorare di notte? Finite sempre per imbattervi in malati, ubriachi e perfino persone aggressive.

— E che differenza fa? Sono tutti pazienti. Beh, io devo andare. Grazie. Ma state attente anche voi.

— Va’, cara. E abbi cura di te.

Angela si diresse alla fermata, mentre le nonnine cominciavano a discuterla tra loro.

— Povera ragazza, davvero. Altri avrebbero già odiato i medici, e invece lei ha scelto questa professione.

— Proprio per questo l’ha scelta: perché di “medici cattivi” come quelli che ha avuto lei ce ne siano meno. Ricordate quando sua madre non ricevette aiuto in tempo?

— Come no! Ne ha passate tante, quella ragazza. E il padre era un vero mostro. Come ha fatto a crescere una persona così?

— Eh già, il destino… I genitori sono morti in una rissa alcolica. E lui adesso? Sapete qualcosa?

— No, come potremmo? Magari non c’è più neanche lui. Con quel carattere…

Angela immaginava di cosa bisbigliassero le vecchiette quando la vedevano. È nella loro natura: ricordare un po’ il passato, “lavare i panni sporchi”. Ma non c’era cattiveria: semplicemente, da loro si usa così.

Angela saltò giù dal minibus e fece un cenno al conducente — un ragazzo giovane che la guardava sempre con una certa tristezza, senza mai decidersi a fare conoscenza. Lei in cabina, lui al volante. Lui sorrise e ricambiò il saluto.

— Angela, che bello che sei arrivata in anticipo! Ti cercava il primario.

— Perfetto, grazie. Vado subito da lui.

Stepan Vladimirovich la accolse con gioia, quasi fosse di famiglia.

— Angela, Angela Vasil’evna, si accomodi. — Lei rise: — Sento, Stepan Vladimirovich, che volete qualcosa da me. Altrimenti perché tanta gioia nel vedermi?

Il primario l’aveva sempre trattata quasi come un nonno con la nipote. Anche se all’inizio avevano spesso discusso: lui non riusciva ad accettare i metodi moderni che Angela proponeva.

Un giorno tra loro scoppiò un serio conflitto e Stepan Vladimirovich perse la calma:
— Ma tu chi credi di essere, mocciosa?! Vorresti insegnare a me? Fuori! Sei licenziata!

Le sue parole fecero scoppiare Angela in lacrime. Uscì in strada e i colleghi le corsero dietro, pregandola di restare. Assicuravano che Stepan non era cattivo, solo terribilmente impulsivo.

E proprio allora, come se il destino avesse deciso di intervenire, di fronte alla postazione del pronto soccorso avvenne un terribile incidente. Due auto si scontrarono a grande velocità. A bordo c’erano quattro persone, tutte in condizioni gravissime. Servivano azioni fulminee. Prima di caricarli in ambulanza bisognava almeno stabilizzarli un po’. Il cuore di uno di loro si fermò.

Stepan Vladimirovich fece di tutto per riportarlo in vita, senza risultato. Allora Angela lo scostò con decisione. Lui cercò di fermarla, dicendo che non aveva il diritto di usare quel metodo, che era illegale e che nessuno lo faceva. Ma Angela riuscì a far ripartire il cuore del ferito. Anche se lei stessa ne uscì come bruciata dentro.

Quando tutti i feriti furono portati in ospedale, i due rimasero a lungo seduti fuori. Stepan Vladimirovich, che da oltre trent’anni combatteva per la vita delle persone, ora parlava con Angela, a tratti taceva, poi ricominciava. Da allora divennero veri amici. E Stepan iniziò a fare ciò che prima non faceva mai: cominciò ad ascoltare i consigli di Angela.

— Angela, come sempre hai ragione. Capisco che è contro tutte le regole. Non si dovrebbe, potresti non reggere, ma d’altra parte, se c’è qualcuno che può farcela, quella sei tu.
— Stepan Vladimirovich, smettetela di girarci intorno!
— Angela, tre dei miei paramedici si sono presi un’influenza tremenda. Domani non c’è nessuno da mandare in turno. So che vieni da una notte, ma potresti fermarti almeno mezza giornata? Dopo pranzo ti dà il cambio Valentina Sergeevna.
— Ma che bisogno c’è di tante premesse? Sapete che non vi dirò di no. A casa non ho nulla da fare. Non ho neppure preso un gatto, per non farlo soffrire di solitudine.

— Angela, se il turno sarà troppo pesante, se ti sentirai sfinita, dillo subito, d’accordo?

— Va bene, d’accordo.

La notte fu insolitamente movimentata. Un vagabondo aveva accoltellato un altro, una moglie aveva accolto il marito con il matterello. Solo che i calcoli erano stati sbagliati — il colpo era finito nel posto sbagliato. E verso mattina capitò un caso da barzelletta. Il marito tornò a casa non alle otto, come al solito, ma alle cinque. E la sua “adorata” non era sola — era con l’amante. L’uomo, a quanto pare, cacciatore, aveva una cartuccia a pallettoni nel colpo. Gli amanti sono vivi, ma ai medici toccherà tirar fuori tutta quella rosata.

Proprio prima del cambio turno tutto si quietò — classico. La gente si prepara ad andare al lavoro, a scuola, all’asilo; non c’è tempo per occuparsi dei malanni. Chi ha festeggiato tutta la notte dorme già, e chi si è alzato aspetta l’apertura dei negozi di alcolici. Perciò al mattino di solito c’era un’ora o due di relativa calma. Tutti si erano riuniti alla postazione, bevevano caffè e scherzavano.

— Squadra in uscita!

I medici si scambiarono uno sguardo sorpreso. A chi era venuto in mente di ammalarsi proprio adesso, nel loro sacrosanto momento di pausa? Partì una squadra “fresca”, compresi alcuni rimasti dalla notte. Però tornarono in fretta.

— Dove siete stati? Così veloci?

— Non ci crederete: all’obitorio.

Angela tossì per lo stupore. Adesso chiamano anche là?

— Proprio così. Una signora è arrivata per ritirare il marito. A quanto pare era un pezzo grosso o semplicemente un uomo molto ricco. Davanti all’obitorio c’erano i paparazzi e a lei serviva interpretare bene la parte.

— Interpretare? — si stupì Angela.

— Esatto. È perfettamente sana. Anche il polso è a posto. Ma per l’articolo di giornale bisognava essere all’altezza dell’immagine.

Angela scosse la testa. Tempi proprio strani — perfino la morte diventa uno spettacolo.

— Hai ragione, Angela. E non credo che sia l’ultima chiamata di oggi da parte sua. Se i giornalisti erano all’obitorio, li troveremo di certo anche al cimitero. Se serve, sono pronto. Basta creare l’illusione del lavoro.

— Davvero le hai fatto da spalla?
— E come no! Per una ricompensa del genere avrei ballato pure la “polka-farfalla”.
Il dottore mostrò alcune banconote di grosso taglio.
— Oh, con che destrezza me le ha infilate in tasca — quasi non me ne sono accorto!
Nella sala relax scoppiò una risata generale.
— Oggi la fortuna ti sorride. Entro sera ti fai i soldi per un’auto nuova!
Ancora ridendo, sentirono i telefoni dei dispatcher tornare a squillare. Non era passato nemmeno un quarto d’ora che la stazione si era svuotata. La chiamata per Angela arrivò alle undici in punto.

— Angela, cimitero centrale. Lì vi incontrerà il custode e vi accompagnerà. Pare stiano seppellendo qualcuno benestante.
Angela ricordò subito il caso del mattino con i colleghi. Era sicura: si trattava di quella stessa donna.

— Va bene, andiamo a dare un’occhiata alla vedovella inconsolabile.
L’autista sogghignò.
— Pensi sia lei?
— Ne sono certa. Coincidenze così non esistono.

Il funerale era sfarzoso. Angela notò subito la bara costosa, i tanti fiori freschi, la folla di gente e di fotografi, e la “vedova inconsolabile” che sussurrava troppo animatamente con un uomo proprio accanto alla bara. Gettato un rapido sguardo al defunto, si voltò verso la donna.

— Si sente male?

Fu allora che la vedova parve ridestarsi dal suo ruolo. Lanciando uno sguardo rapido all’uomo, sibilò:
— Sbrigati a finire qui, il tempo stringe!

Poi, torcendosi le mani, cominciò a lasciarsi cadere. L’uomo in completo scuro, probabilmente un notaio o un rappresentante della famiglia, fece in tempo a sorreggerla e la fece sedere. Angela arricciò le labbra: era tutto come immaginava. La vedova stava benissimo. Sussurrando ai sanitari:
— Datemi una pillola e potete andare,
quasi si mise a ridere.

Angela si arrabbiò. Mentre lei perdeva tempo con quella farsa, da qualche parte un vero bisognoso avrebbe potuto non ricevere aiuto. Respinse le banconote tese, chiuse con uno schiocco la valigetta e stava per andarsene.

Ma qualcosa attirò la sua attenzione. Non solo qualcosa: qualcuno. Proprio colui che giaceva nella bara. Quando l’uomo accanto alla vedova ordinò di chiudere la bara, due operai si mossero per eseguire. Tuttavia Angela non riusciva a distogliere gli occhi dal volto del “defunto”. C’era qualcosa di strano. Sfiorò con cautela la sua guancia. Fredda, ma non il freddo della morte. Piuttosto il freddo di chi è rimasto immobile a lungo o ha preso freddo.

— Fermi! — Alzò la mano. Gli operai si bloccarono, e i fotografi cominciarono a immortalare freneticamente la scena.

— Che succede? Perché ostacolate il funerale? — La vedova le corse incontro.

Angela fece finta di non sentire. Prese il telefono e chiamò Stepan Vladimirovich.

— Mi servono risposte immediate. Si ricorda di quando mi raccontò del suo amico in Africa, che per poco non fu sepolto vivo? Ci sono tutti quei segni. Credo che qui abbiamo un morto… vivo.

La vedova trasalì e guardò stupefatta il suo accompagnatore.
— Che diamine fai lì impalato? Dai l’ordine, sotterratelo! Vi pago per questo!

Gli operai si scambiarono uno sguardo.
— No, capo, se la dottoressa dice che è vivo, noi un peccato del genere non ce lo prendiamo sull’anima.

L’uomo provò a prendere lui stesso il coperchio, ma in quel momento dall’ambulanza balzò giù l’autista con un piede di porco in mano. Evidentemente Stepan Vladimirovich gli aveva già spiegato la situazione. Dietro a lui accorrevano i giornalisti. Formarono un anello fitto, impedendo alla vedova e al suo compare di avvicinarsi.

Silenzio. Angela, millimetro dopo millimetro, cercò il polso. Impossibile. Impossibile sbagliare. Eccolo! C’era!

— In ambulanza, subito, presto!

Il polso era così debole e appena percettibile che le speranze di un salvataggio riuscito erano ridotte al minimo.

Angela si rivolse ai giornalisti:
— Vi prego, non ho tempo. Chiamate la polizia, tratteneteli. E riferite anche che non è stata eseguita l’autopsia, benché ora sia indispensabile.

Per tutto il tragitto verso l’ospedale restò in contatto con Stepan Vladimirovich, che a sua volta si consultava con un esperto di veleni. Angela eseguiva ogni indicazione senza fare domande. Ogni secondo contava.

Quando arrivarono a sirene spiegate alla clinica, dove il personale già li attendeva, nell’uomo il polso divenne percepibile. Angela si chinò su di lui, sussurrando:
— Mi senti? Devi farcela, devi.

Le era parso o le ciglia dell’uomo avevano tremato in risposta? Ora non restava che aspettare.

Più tardi, stanca, Angela sedeva nell’ufficio di Stepan Vladimirovich. Lui le mise davanti una tazza di tè forte e un enorme panino. Notando il suo sguardo sorpreso, spiegò:
— È passata Lidia e ha ordinato tassativamente di darti da mangiare.

Angela sorrise. Lidia era la moglie di Stepan Vladimirovich, che aveva accolto Angela come una figlia.

— Beh, non proprio. È solo che il turno è stato… speciale.

— Già, cose che non capitano tutti i giorni. Il tuo “defunto” ha poche possibilità. Una notte in cella frigorifera non è uno scherzo. Anche se, forse, è proprio quello che l’ha salvato. Il veleno non ha fatto in tempo a sciogliersi del tutto e ad essere assorbito.

Sul tavolo squillò il telefono. Angela si immobilizzò con il panino a metà bocca e Stepan Vladimirovich sollevò la cornetta.

— Sì? Cosa?! — Il suo viso si illuminò, poi si aprì in un ampio sorriso. — Per una notizia così sono pronto a stappare il cognac!

Riagganciò e si voltò verso Angela. Lei a stento si tratteneva dal gridare:

— E allora?!

— Vedi… Forse sei davvero nata sotto una stella speciale? Il tuo “figlioccio” l’abbiamo ripreso! Certo, lo aspetta una lunga riabilitazione, ma non solo vivrà: resterà lucido!

Angela quasi saltellava sulle pozzanghere dopo un breve acquazzone estivo, mentre raggiungeva la fermata. Arrivò il minibus. L’autista, il giovane di prima, la guardò stupito — a quell’ora non portava di solito passeggeri. Ma Angela, sorridendo, aprì la portiera accanto a lui.

— Posso?

Il ragazzo rispose con un sorriso smagliante.

— Lo sa già che può.

Angela si sedette e si voltò verso di lui.

— Io mi chiamo Angela.

— E io Viktor. Pare che oggi sia l’uomo più felice del mondo. Pensavo che non sarei mai riuscito a parlarle se non attraverso lo specchietto retrovisore.

Angela rise. Se solo avesse saputo quanto felice si sentisse lei in quel momento.

E un anno dopo tutto il turno si riunì per salutare Angela che andava in maternità. Gli occhi di tutti erano un po’ lucidi di gioia.

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