Il sussurro ereditato del destino.

Per molto tempo non riusciva a rimanere incinta e, quando ormai aveva del tutto perso la speranza, in sogno le apparve la sua bisnonna, di cui si diceva fosse una strega. Sofia era allo stremo. Anni di tentativi vani, camici bianchi dei medici, amare pillole di speranza che si scioglievano senza portare sollievo, e il silenzio della casa, che ogni mese suonava sempre più forte e accusatore. Si era ormai rassegnata all’idea che la sua maternità si sarebbe limitata alla cura dei ficus da appartamento e della gatta Marchesa. E in una di quelle notti, quando il sonno si mescolava alle lacrime, Lei venne a trovarla.

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Non era una chimera, ma realtà, densa e tangibile. L’aria della camera da letto si fece vischiosa, colma dell’aroma d’assenzio e di vecchia carta ingiallita. Accanto al letto stava un’anziana alta e asciutta, con occhi appuntiti come punteruoli. Sofia la riconobbe subito dalla fotografia d’epoca: Anastasia, la sua bisnonna, sulla quale in famiglia correvano leggende sussurrate. Si diceva che le sue erbe rimarginassero qualsiasi ferita e che le parole, gettate lì per caso, avessero la spaventosa abitudine di avverarsi con esattezza. La chiamavano “colei che sa” o, più semplicemente, una strega.

Anastasia, senza muovere le labbra, ma chiara e netta, come se una punta rovente le si conficcasse nella coscienza, disse: «Sangue del mio sangue, ascolta. Ti darò un figlio. Una bambina. Ma ricorda: lei accoglierà il mio dono. In lei si desterà, e tu non osare ostacolarlo. Io stessa non so quale sarà esattamente, ma che avvenga ciò che deve avvenire».

Sofia si svegliò madida di sudore freddo, ma dentro la riempì una strana calma, simile a una resa rassegnata. E accadde un miracolo. A tempo debito venne alla luce una piccola bambina, che chiamarono affettuosamente Alisa.

Non era soltanto bella. Era tessuta di luce e mistero. Labbra scarlatte a fiocco, setose riccioli castani che incorniciavano un viso d’angelo, e gli occhi… Oh, quegli occhi! Non semplicemente verdi, ma del colore del fogliame primaverile dopo il temporale, enormi, profondi e non ingenui, ma saggi in modo non infantile. Quando Sofia vi si immerse per la prima volta, fu trafitta da un brivido gelido: le parve che a guardarla fosse la stessa eternità, che quel fagottino appena nato sapesse già tutto e tutto comprendesse. Poi quella sensazione si affievolì, diventò un’ospite rara, ma in fondo all’anima ardeva una scintilla inquieta: “e se…?”.

Gli anni volavano rapidi e luminosi. Alisa cresceva a vista d’occhio, incarnazione della gioia dei genitori e oggetto dell’invidia candida dei vicini. A tre anni leggeva con disinvoltura le insegne, a quattro cinguettava la tavola pitagorica e poteva passare ore a contemplare il cielo stellato su un atlante illustrato. Un giorno capitò da loro la vicina, la buona e sempre indaffarata Agrippina Petrovna, a chiedere un po’ di burro per i dolci. Alisa, seduta sul pavimento con un libro, alzò su di lei il suo sguardo penetrante e, aspettando che la porta si richiudesse alle sue spalle, dichiarò con serenità:
— La nonna morirà presto. Piano, nel sonno.
Lo disse come se stesse constatando che fuori aveva iniziato a piovere, e se ne andò nella sua stanza, lasciando Sofia con il volto impietrito e un grumo di ghiaccio nello stomaco.

Tre giorni dopo, la figlia di Agrippina Petrovna, in lacrime, comunicò la triste notizia: la madre era passata a miglior vita, quietamente, durante il sonnellino del dopopranzo. A Sofia venne meno il respiro. Tutte le sue speranze che quel sogno premonitore fosse solo un gioco di una mente esasperata dalla disperazione crollarono in un istante. La sua bambina era… diversa.

Poco dopo arrivò il secondo vaticinio, questa volta non spaventoso, ma incoraggiante. Il marito, Artem, tornò dalla fabbrica sfinito, con la pelle grigia di stanchezza. Alisa gli corse incontro, poggiò la guancia sul suo palmo calloso e sussurrò:
— Papino è stanco. Non fa niente, presto diventerai un grande capo. Starai seduto in un bel ufficio.
Artem rise, sollevò la figlia tra le braccia e la fece girare per la stanza:
— Magari le tue paroline arrivassero dritte alle orecchie dell’angelo custode!
Ma le parole di Alisa, a quanto pare, arrivarono dove dovevano. A fine settimana il capo reparto morì all’improvviso per un attacco di cuore, e Artem, come uno dei migliori maestri, fu nominato al suo posto. Tornato a casa raggiante, la prima cosa che fece fu prendere in braccio la figlia:
— Sole mio, come potevi saperlo?
La bambina lo guardò attentamente con i suoi occhi senza fondo e rispose con infantile franchezza:
— E so anche un’altra cosa: baci la signora Ljuda della contabilità sulla guancia quando la mamma non c’è.
Artem rimase di sasso. Il sangue gli defluì dal viso. Per fortuna, la moglie non era lì.
— È… è solo un gesto di gratitudine, piccola. Una questione di lavoro. Alla mamma, d’accordo? Non dirlo.
Alisa scosse il capo, e nel suo sguardo guizzò un’ombra di tristezza adulta:
— Lo saprà presto anche da sola. E tu te ne andrai da noi. Peccato.
L’uomo fissava sua figlia con una paura istintiva, animale, sentendosi completamente nudo e indifeso davanti a quella piccola vaticinatrice…

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