Daria spalancò la porta e rimase immobile: davanti a sé c’era una carrozzina sconosciuta e in braccio a suo marito c’era un bambino.

Quando Daria tornò a casa, la città era da tempo avvolta dalla sera. Il cielo umido e fresco quasi si fondeva con i tetti, e sul selciato bagnato sottili rivoli d’acqua scorrevano dopo la pioggia appena cessata. Le pozzanghere riflettevano le luci tremolanti dei lampioni — lampeggiavano come occhi stanchi. Salì a piedi al quarto piano — l’ascensore era di nuovo fuori uso. Nel vano scale aleggiava un odore di vecchio: polvere, muffa e un vago sentore di infanzia — come se qualcuno fosse appena passato con un bambino in braccio.

Come al solito, stava per mettere piede in casa e chiamare il marito: «Max! Sono tornata!» — ma le parole le rimasero in gola. Proprio all’ingresso c’era un passeggino. Vecchio, grande, con i bordi blu logori e graffiati. I raggi luccicavano leggermente alla luce del lampione che filtrava attraverso il vetro sporco. Sui gradini frusciavano foglie secche portate dalla corrente d’aria.

— Max! Cos’è questa adesso? — la sua voce era tesa. — Di nuovo i vicini hanno ingombrato lo spazio comune? Dobbiamo parlare!

Dall’interno arrivò la voce di Massimo:

— Non sono i vicini, Dasha… questo è… adesso è il nostro passeggino.

Daria rimase immobile. Lui uscì dalla stanza tenendo tra le braccia un fagotto avvolto in una copertina rosa e azzurra. Al suo interno dormiva un neonato — minuscolo, con guance rosate, il labbro leggermente socchiuso e il respiro regolare.

Massimo le porse un biglietto. Il carattere le era subito familiare:

«Dasha, perdonami. Non avevo scelta. Il suo padre se n’è andato prima ancora che nascesse. Poi ho incontrato un altro uomo e partiamo all’estero. Il bambino non gli serve. Ti prego, occupati di Roma. So che sei buona. Scusa… Ksyusha.»

Daria cadde a sedere sul pavimento, appoggiata al muro. Un vento gelido sferzava le ultime foglie sugli alberi, facendole volare nel cortile. Guardava il bimbo sentendo un nodo stringerle il cuore. Roma. Figlio della sua sorellina minore. Quella era scomparsa tre anni prima dopo un litigio violento. E ora suo figlio si trovava di fronte a una vita sconosciuta.

Massimo sospirò, irritato:

— Dasha, immagina: sono le tre di notte e urla così forte che i vicini chiameranno la polizia. Non si può andare avanti così. — Allora vai in salotto, ci penso io. — È casa mia, non posso dormire?

Il giorno dopo iniziò cupo. Una coltre grigia gravava sui palazzi, l’aria era umida e tagliente. Daria avvolse il piccolo in vestiti caldi e si diresse al parco. I viali erano coperti di foglie d’autunno: gialle, rosse, marroni. Sotto i suoi passi scricchiolavano. In lontananza qualcuno bruciava ramaglie — l’odore di fumo si mescolava a quello della terra bagnata. Camminava piano, il passeggino ondeggiava, e nella mente le torreggiavano pensieri ansiosi: come ottenere la tutela? Dove trovare Ksyusha? E se niente dovesse funzionare?

— Dasha! — una voce la chiamò alle spalle.

Si voltò. Davanti a lei stava un uomo sui trent’anni, alto, con un lungo cappotto beige. Nei suoi occhi scuri c’era smarrimento.

— Chi è lei? — chiese, diffidente.

— Mi chiamo Igor. Sono… il padre di Roma.

Daria sentì un gelo dentro.

— Che vuole?

— Voglio riportare via mio figlio. Io e Ksyusha non eravamo sposati, ma lui è mio figlio. Posso fare un test del DNA.

— Dimentichi questo test! — rispose secca Daria. — Lo ha già abbandonato. Pensa che glielo consegnerò? Vada via e non si faccia più vedere.

Le ruote del passeggino rimbombavano sul selciato, il vento gelido le sferzava il volto.

A casa, Daria raccontò tutto a Massimo. Lui sbuffò:

— Bene! Che lo porti via. Forse così potremo tornare a vivere normalmente. — Ma mi ascolti? L’ha già abbandonato! — E io? Non lo abbandono? Ora pensi solo a lui! Abbiamo debiti, lavoro, problemi di coppia! — Massimo si alzò, prese la giacca e sbatté la porta. Nella casa calò un silenzio rotto solo dal respiro del neonato. Daria rimase al centro della stanza, sentendo tutto crollarle addosso.

Il giorno dopo tornò al parco. Il vento era più pungente, il cielo coperto da nuvole dense, a tratti pioveva. Roma dormiva nel passeggino. E di nuovo sentì una voce:

— Dasha, aspetti, per favore…

Si fermò.

— Non l’ho mai abbandonato. Cercavo Ksyusha. Lei era sparita. Quando l’ho trovata, aveva già deciso di lasciar stare tutto. Sono arrivato, ma era tardi. Ora voglio stare accanto a mio figlio. Ho un appartamento mio, un lavoro stabile, perfino una bambinaia. Potete vederlo quando volete. Non cerco di portarlo via, offro una famiglia.

Daria tacque a lungo. Il vento le scompigliava i capelli, e il passeggino sembrava una barriera invisibile. Nei suoi occhi vedeva stanchezza, rimorso e determinazione. Parlava con il cuore, senza scuse o implorazioni.

— Va bene — disse infine —, ma lo visiterò spesso. Molto spesso.

Qualche giorno dopo andò da lui. Un ampio trilocale in un palazzo nuovo alla periferia: luminoso, caldo, accogliente. Nella cameretta un lettino ordinato, peluche, libri sugli scaffali e una tenue luce notturna. Tutto parlava di cura e amore.

— Finalmente potremo dormire! — brontolò Massimo quando lei tornò. — Non pensavo se lo sarebbe portato via così in fretta!

Daria lo osservò a lungo, poi chiese:

— E i tuoi figli, li lasceresti andare via così facilmente? — Ormai non ne posso più di questi! Andavo bene anche senza! — rispose lui in tono brusco.

La mattina dopo fece silenziosamente le valigie. Massimo non provò a fermarla:

— Non tornare.

Andò a vivere da un’amica, dormiva su un divano in cucina. Il giorno dopo chiamò Igor:

— Posso venire? Ho bisogno di vedere Roma.

Lui la accolse con calore. Nei suoi occhi c’era dolore, ma non pietà. Le chiese:

— Stai bene?

— Ho lasciato Massimo. Non ce la facevo più.

Fece un cenno. Poi, come prendendo una decisione, disse:

— Abbiamo tre stanze: una mia, una di Roma e la terza può essere tua. Resta.

E Daria restò.

Passarono due anni. Si sposarono. Un anno dopo nacque Masha — piccola, con guance rosa, manine soffici e occhi dolci. La loro casa si riempì dei profumi di vaniglia, caffè e crema per bambini. Fuori infuriava la tormenta di neve, in cucina la radio suonava canzoni, e Daria per la prima volta dopo anni si sentì davvero a casa: calda, amata e desiderata.