Vent’anni fa, feci Babbo Natale per una bambina — questo Natale è tornata da me

Vent’anni fa, ho perso il mio bambino e mio marito nello stesso dicembre devastante. L’unica cosa che mi ha tenuta in piedi è stato comprare dei giocattoli a una bambina in un negozio di alimentari. Questa vigilia di Natale, quella bambina ha bussato alla mia porta: ormai adulta, con le lacrime agli occhi e un segreto capace di cambiare tutto.

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Sono passati due decenni, eppure ricordo ancora come il silenzio rimbombasse in casa mia quel dicembre. Niente pianti di neonato. Niente ninne nanne. Solo il ticchettio dell’orologio in cucina, indifferente al fatto che il mio mondo si fosse spezzato.

Ero incinta di cinque mesi quando ho perso il mio bambino.

Nessun avvertimento. Nessun ultimo calcetto.

Solo una stanza d’ospedale illuminata da luci al neon fredde e la voce di un medico che cercava di essere gentile. E poi… il nulla. Solo una culla rimasta vuota.

La notte restavo nella cameretta, stringendo in mano minuscole tutine che non sarebbero mai state indossate.

La settimana prima avevo sistemato dei peluche sulla poltrona a dondolo. Li lasciai lì, intatti, per mesi. Le pareti gialle che avevamo dipinto insieme mi prendevano in giro ogni volta che passavo davanti a quella porta.

Una settimana dopo, mio marito preparò una valigia. Pensai che avesse bisogno d’aria, che magari sarebbe andato da suo fratello.

Invece guardò a terra e disse: «Io ho bisogno di una famiglia. E qui non ne vedo più una.»

I medici mi avevano detto che il danno era troppo grave.

Che non avrei più potuto portare avanti un’altra gravidanza. Che il mio corpo mi aveva tradita in un modo che non potevo aggiustare.

Ero incinta di cinque mesi quando ho perso il mio bambino.

Tre giorni dopo, mio marito presentò le carte per il divorzio. Disse che voleva dei figli. Figli veri.

E poi, così, se ne andò anche lui.

Quell’anno, a Natale, non venne nessuno.

Smisi di rispondere ai messaggi. Alcuni giorni mi costringevo a buttare giù un po’ di pane tostato, giusto per avere energia per piangere. Aprivo l’acqua della doccia così i vicini non mi sentivano singhiozzare.

Ma il dolore non si preoccupa di quanto piangi. Ti si deposita nelle ossa e resta lì ad aspettare.

Fu qualche giorno prima di Natale che mi resi conto di non essere uscita di casa da più di una settimana.

Non avevo tè, latte o pane. Non avevo neppure voglia di mangiare. Avevo solo bisogno di qualcosa di caldo da tenere tra le mani.

Così mi coprii bene e andai al negozietto all’angolo.

La musica di Natale era troppo alta. I corridoi erano pieni di gente che portava vassoi di biscotti, vino e carta regalo. Sembravano tutti brillare di allegria.

Io stavo in fila con una scatola di tè economico, fissando il pavimento, cercando di non piangere in pubblico.

Poi sentii la voce di una bambina. «Mamma, secondo te quest’anno Babbo Natale mi porterà una bambola? E le caramelle?»

Non poteva avere più di cinque anni.

I capelli erano raccolti in una coda storta. Una piccola cicatrice le attraversava una guancia.

«Mamma… secondo te quest’anno Babbo Natale mi porterà una bambola?»

Si aggrappava al cappotto della madre come se fosse l’unica cosa sicura al mondo. Nel loro carrello c’erano solo latte e pane. Gli occhi della donna si riempirono di lacrime mentre si accucciava e le accarezzava i capelli.

«Oh tesoro… Babbo Natale mi ha scritto una lettera. Ha detto che quest’anno gli sono finiti i soldi.»

La faccia della bambina si rabbuiò, ma non pianse. Annuì soltanto, come se la delusione fosse già una cosa normale per lei.

Non so cosa mi sia successo dentro, ma mi mossi senza pensare.

Lasciai il tè sul bancone e corsi nel reparto giocattoli, con il cuore che batteva così forte che faticavo a respirare. Presi l’ultima bambola sullo scaffale, dei bastoncini di zucchero, un piccolo orsacchiotto, una mela e un’arancia.

Quando tornai alle casse, la donna e la bambina non c’erano più. Pagai, buttai lo scontrino nella borsa e corsi fuori nel parcheggio. Stavano quasi attraversando la strada.

«Ehi!» gridai, senza fiato.

La bambina mi fissò. La madre sembrò confusa, forse anche un po’ spaventata.

Mi inginocchiai sull’asfalto freddo. «Io sono una degli elfi di Babbo Natale. Ci vestiamo come persone normali così nessuno lo capisce.»

Gli occhi della bambina si spalancarono mentre le porgevo le buste.

«Babbo Natale ha rotto il suo salvadanaio. Però mi ha chiesto di portarti questo, tesoro. Ha detto che quest’anno sei stata davvero, davvero brava.»

Lei urlò di gioia e mi si gettò al collo così forte che per poco non persi l’equilibrio. Gli occhi della madre si riempirono di lacrime.

Sussurrò solo: «Grazie.» Nient’altro. E in quel momento minuscolo e fugace, mi sembrò di riuscire finalmente a respirare di nuovo. Era la cosa più piccola che avessi mai fatto. Ma quella notte mi salvò.

«Babbo Natale ha rotto il suo salvadanaio.»

Gli anni passarono… venti.

Non ebbi mai un altro figlio. I medici avevano avuto ragione.

Provai a frequentare qualcuno, ma non funzionò mai davvero. Gli uomini o se ne andavano troppo presto o restavano troppo a lungo senza vedermi davvero.

Riempì la mia vita di libri, serate silenziose e lavori part-time che pagavano le bollette ma non colmavano il vuoto.

Con gli anni i Natali diventarono sempre più quieti: un alberello quando me ne ricordavo, un regalo per me stessa e un bicchiere di vino, se mi sentivo abbastanza coraggiosa da fingere.

Ma quella bambina non se ne andò mai dalla mia memoria.

Ogni dicembre pensavo a lei, chiedendomi se avesse ancora quella bambola, se si ricordasse della sconosciuta che aveva finto di essere un elfo di Babbo Natale.

La vigilia di Natale, mi sedetti per una cena silenziosa: un piatto, una forchetta e una candela che tremolava piano tra i due, quando sentii bussare. Non aspettavo nessuno. Nemmeno la posta.

Aprii la porta e per un attimo smisi di respirare. Davanti a me c’era una giovane donna, avrà avuto venticinque anni, con un cappotto rosso. La cicatrice sulla guancia era tenue, ma il mio cuore lo sapeva già.

«Non so se si ricorda di me», disse con voce dolce. «Ma io mi ricordo di lei.»

La cicatrice sulla sua guancia era leggera, ma il mio cuore lo sapeva già.

Lei sorrise. «Ce l’ho ancora, questa cicatrice. Me la sono fatta cadendo da un triciclo quando avevo quattro anni. Ho sbattuto contro lo spigolo dei gradini del portico. Mamma si spaventò tantissimo, ma poi è guarita. È così che molti mi riconoscono.»

Sbatté le palpebre in fretta, cercando di non piangere. «Come mi hai trovata?» chiesi io, con un filo di voce.

«Lo vedrà», disse lei, lanciando uno sguardo verso la strada. «Per favore… verrebbe con me? C’è una cosa che voglio mostrarle.»

Esitai. Ma c’era qualcosa nei suoi occhi che mi trascinò fuori.

La sua auto era calda e silenziosa. Dalle casse usciva un canto natalizio strumentale, morbido.

Io continuavo a guardarle le mani sul volante, cercando di mettere insieme i pezzi.

«Ti ricordi quel giorno?» le chiesi alla fine.

«Mi ricordo tutto dell’elfo gentile che ha reso quel Natale indimenticabile. E se lo ricorda anche mia madre.»

Il viaggio durò circa quarantacinque minuti, ma la mia mente girava a vuoto. Domande che non sapevo come fare mi si ammucchiavano in gola.

«Come mi hai trovata davvero?» insistetti.

Lei non rispose subito. «Lo capirà presto… glielo prometto.»

«Come mi hai trovata davvero?»

Ci fermammo davanti a una grande casa a due piani, avvolta da fili di luci. Sembrava uscita da un film di Natale.

La seguii dentro, col cuore che martellava. Al piano di sopra, sua madre era sdraiata in una stanza soffusa, avvolta nelle coperte.

In quel momento era più magra. I capelli più grigi, raccolti in uno chignon morbido. Ma i suoi occhi si illuminarono quando mi vide. Allungò la mano e io presi la sua, sentendone tutta la fragilità.

«Lei mi ha salvata quella notte. Ha salvato entrambe.»

Le lacrime mi annebbiarono la vista. Indicò sua figlia, e solo allora scoprii che si chiamava Mia.

«Ero al verde. Suo padre era morto l’anno prima», aggiunse la donna. «Facevo due lavori, a stento riuscivo a tenerci a galla. E quel Natale non avevo niente. Ma lei…»

Si fermò, tossendo piano. «Mi ha ricordato che alle persone importa ancora. Che la gentilezza esiste ancora.»

Mi asciugai il viso. «Non ho fatto granché.»

«Lei ha fatto tutto. Quella notte, quando siamo tornate a casa, ho visto Mia stringere quella bambola e ho deciso che non mi sarei arresa. Ho iniziato a fare bambole a casa. Con gli scampoli. Ne ho vendute alcune online. Poi altre. E altre ancora.»

La voce le si affievoliva, ma le parole erano ferme.

«È cresciuto. In qualche modo… è diventato questo.»

Fece un gesto verso la stanza bella, verso quella casa costruita dall’amore.

Mia continuò: «Mamma ha tirato su un’azienda di giocattoli partendo da zero. Ha pagato le bollette. Mi ha mandato all’università. Ci ha dato una vita che non avremmo mai immaginato.»

Rimasi lì, senza parole, cercando di capire.

«Dopo quel giorno, siamo tornate in quel negozio ogni Natale», continuò Mia. «Sperando di rivederla. Sperando di poterla ringraziare. Ma non è successo. Poi, la settimana scorsa, l’abbiamo vista. Stesso negozio. Stesso corridoio del tè. L’ho riconosciuta subito.»

«Siamo tornate in quel negozio ogni Natale dopo quello.»

«L’ho seguita fuori», disse Mia con dolcezza. «Ho chiesto di lei ai vicini. Uno mi ha detto che vive da sola. Che se ne sta per conto suo. Che sembra… triste.» La sua voce si fece più morbida. «Mi si è spezzato il cuore.»

Sua madre mi strinse la mano più forte. «Sto morendo. È cancro. Quarto stadio. Ma prima di andarmene, voglio darle qualcosa.»

Poi disse una cosa che non avrei mai immaginato.

«Voglio che resti e che prenda in mano la mia azienda. Che faccia parte di questo. Che faccia parte della nostra famiglia.»

Provai a parlare, ma non uscì nulla.

Lei sorrise piano, con le lacrime negli occhi.

«Per favore, non passi un altro Natale da sola.»

Crollai. Proprio lì, accanto al suo letto, piansi come una bambina. Erano serie. E lo intendevano davvero.

Aveva appena detto qualcosa che non mi sarei mai aspettata.

Mia mi prese la mano mentre scendevamo le scale. «Mamma ha già aggiornato le carte. Gli avvocati hanno tutto pronto. Non è più sola.»

Quella notte rimasi. Mangiammo biscotti di Natale e guardammo un vecchio film. Per la prima volta dopo anni, mi sembrò di appartenere di nuovo a un posto.

Mia si sedette accanto a me e sussurrò: «Quel giorno mi ha dato l’unico regalo che ricordo della mia infanzia. L’unico che contava davvero. E adesso tocca a noi.»

La abbracciai come se fosse mia. Forse lo era.

La madre di Mia se ne andò due settimane dopo.

Fu un addio sereno. Eravamo lì tutte e due, a stringerle le mani.

Al funerale incontrai i dipendenti le cui vite aveva toccato. Le famiglie che compravano i giocattoli della sua azienda. I bambini che ancora giocavano con le bambole che aveva ideato.

In quel momento capii cosa aveva costruito. Non era solo un’impresa: era un’eredità fondata sulla gentilezza. E, da qualche parte lungo la strada, smisi di sentirmi un fantasma.

La gentilezza non salva soltanto chi la riceve. Salva anche chi la dona.

Vent’anni fa pensavo che la mia vita fosse finita. Che non avessi più nulla da dare. Ma mi sbagliavo.

I gesti più piccoli d’amore tornano indietro nei modi più grandi.

A volte una bambina con una cicatrice sulla guancia cresce e ti dà un motivo per continuare a vivere. E a volte, quando credi di aver perso tutto, l’universo ti consegna una seconda possibilità travestita da un bussare alla porta.

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